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A Roma non c'è trippa per gatti

Stefano Cingolani

Cicerone e le tasse, la svolta di Nathan, le molliche di Raggi. Il grande debito di Roma tra cronaca e storia

Ma quali molliche, Virginia Raggi avrebbe dovuto spiegare il debito di Roma non con le briciole, ma con la trippa. Ebbene sì, la trippa dei gatti. Perché oggi come nel 1907 “nun c’è trippa pe’ gatti”. Vuole la leggenda che quando il mazziniano Ernesto Nathan, appena eletto primo cittadino, lesse il disastrato bilancio dell’Urbe, notò una curiosa voce: frattaglie per gatti. “Di che si tratta?”, chiese ai suoi collaboratori. “Vede signor sindaco, la città è piena di gatti randagi e siccome sono utilissimi anche al comune per difendere dalle pantegane i documenti ufficiali, il comune distribuisce loro interiora acquistate al mattatoio”. “Ah sì? Da oggi i nostri gatti dovranno sfamarsi da soli, se non riescono ad acchiappare i ratti vuol dire che la loro funzione di utilità è zero”. Presa la penna e intinta nell’inchiostro rosso, Nathan il saggio (con licenza di Lessing) cancellò quella voce insieme a tante altre. E cominciò con questo gesto simbolico un complesso processo di risanamento del bilancio. Austerità? Certo. Macelleria sociale? Tutto il contrario. Nathan ha edificato buona parte della Roma che conosciamo.

 

Il sindaco Nathan cominciò con un gesto simbolico il complesso processo di risanamento del bilancio, senza austerità né macelleria sociale

Si possono mettere i conti in ordine e nello stesso tempo migliorare la città. Oggi è tutto uno scaricabarile. E a pagare è lo stato

 

Alla vigilia della rivoluzione liberale, lo Stato pontificio aveva accumulato un debito pari a 41 milioni di scudi conseguenza di vent’anni ininterrotti di disavanzi pubblici. Per avere un’idea, lo scudo valeva circa 5 lire piemontesi. Il Regno delle Due Sicilie nel 1860 aveva un debito di 700 milioni di lire, il Regno di Sardegna un miliardo e 482 milioni. La relazione del Tesoriere monsignor Monichini pubblicata dal Risorgimento del 15 gennaio 1848 faceva tirare al giornale fondato da Cavour un sospiro di sollievo, fiducioso che le riforme introdotte da Pio IX avrebbero risanato “la finanza romana, la parte forse dell’amministrazione più manomessa”. Le speranze andarono deluse: la repubblica di Mazzini e Garibaldi nel 1849 e la restaurazione successiva interruppero quel sottile sentiero riformatore. Nonostante tre giubilei straordinari, nel 1870 anche i debiti della nuova capitale s’abbatterono (in proporzione agli abitanti delle province annesse) su quelli del Regno d’Italia gravati dalle guerre d’indipendenza e dagli interessi pagati alle banche francesi e inglesi che avevano finanziato il Piemonte e poi il nuovo stato italiano. Il rapporto tra debito e pil secondo le stime di diversi economisti, in particolare Vera Zamagni, passa in Italia dal 45 per cento del 1861 al 96 per cento nel 1870, una volta incorporati tutti gli stati e staterelli (restano fuori solo Trento e Trieste). Dopo una breve discesa torna a salire fino a raggiungere il 120 per cento alla fine del secolo. Mentre subito dopo l’unità l’indebitamento viene gonfiato soprattutto dal grande piano di sviluppo delle ferrovie, negli anni 90 contribuiscono in modo determinante il sostegno finanziario del comune di Napoli e soprattutto Roma dove scoppia la bolla edilizia e lo scandalo della Banca romana mette in luce l’intreccio tra palazzinari, banchieri e politici. A Nathan, dunque, tocca una gigantesca patata bollente che va ben al di là del suo peso locale e aveva un impatto diretto sulle finanze del regno.

Ebreo di origini anglo-italiane, cosmopolita, repubblicano nella linea di Mazzini e Saffi, massone dal 1887, laico e anticlericale, Ernesto Nathan diventa il primo sindaco di Roma estraneo alla classe di proprietari terrieri (nobili e no) che aveva governato la città fino al 1907. Un po’ di Wikipedia non fa male per capire cosa possiamo imparare da questo singolare personaggio. Nathan nasce a Londra il 5 ottobre 1845 dalla pesarese Sara Levi (1819-1882) e da Moses Meyer Nathan, agente di cambio tedesco naturalizzato inglese, che muore il 4 agosto 1859, quando il ragazzo non ha neanche quattordici anni. La madre diventa una fervente mazziniana e gli studiosi sono concordi nell’ammettere che abbia avuto con il patriota genovese una relazione amorosa. Falso invece che Nathan sia figlio illegittimo di Mazzini. Il ragazzo vive l’adolescenza e la prima giovinezza tra Firenze, Lugano, Milano e la Sardegna, dove viene inviato ad amministrare un cotonificio che però fallisce. L’influenza di Giuseppe Mazzini e di Aurelio Saffi, amici di famiglia dai tempi londinesi, incide fortemente nella sua formazione culturale e politica. Nel 1867 sposa Virginia Mieli e tre anni dopo giunge a Roma appena liberata per lavorare come amministratore al giornale repubblicano “La Roma del Popolo”. In politica si distingue per le sue posizioni apertamente anticlericali. Dal 1879 aderisce al partito dell’Estrema sinistra storica, nello schieramento di Felice Cavallotti. Ricopre la carica di gran maestro del Grande Oriente d’Italia dal 1896 al 1904 e dal 1917 al 1919. Nell’aprile 1898 Nathan viene eletto consigliere comunale e più tardi nominato assessore all’Economato e ai Beni culturali, un incarico amministrativo di grande rilievo mentre la capitale subisce una tumultuosa crescita edilizia e demografica. All’arrivo dei Savoia, Roma contava appena 226.000 abitanti; trent’anni dopo, nel 1900, sarebbero raddoppiati. Impiega due anni, ma finalmente nel 1909 Nathan fa approvare il piano regolatore che regolamenta le tipologie edilizie (palazzi, villini, aree di verde pubblico e via dicendo). I fabbricati non possono superare i 24 metri d’altezza; i villini, costituiti da un pianterreno con giardinetto, non oltre i due piani. E’ l’immagine della Roma che ancor oggi vediamo al Viminale, a Prati, attorno a villa Borghese. Ma Nathan colpisce soprattutto la rendita fondiaria: impone tasse sulle aree fabbricabili e procede agli espropri, applicando le direttive del governo Giolitti. Il sindaco riesce a ottenere che la capitale elevi la tassa sulle aree fabbricabili dall’1 al 3 per cento. Il varo del piano regolatore apre le ostilità e comincia un violento attacco alla giunta da parte dei grandi proprietari terrieri legati alle finanze vaticane. Sotto la gestione Nathan nascono l’azienda tranviaria, bisnonna dell’Atac che oggi è in totale fallimento, e ancora l’azienda elettrica, il controllo degli acquedotti posseduti dal Vaticano, a cominciare dall’Acqua Marcia, asili nido, scuole, presidi ostetrici, monumenti pomposi come il Vittoriano e il palazzo di giustizia, chiamato Er palazzaccio. Insomma, per i gatti niente trippa, tutte le risorse vanno alla città che compie un salto nella modernità, il più grande mai realizzato. Nathan in ebraico significa “Il signore ha dato”. Nomen omen. Roma ha ricevuto molto e ancor più ha dissipato, soprattutto nel secondo dopoguerra. Un altro piano regolatore completo vedrà la luce solo nel 1963, ma non verrà mai applicato.

 

Il debito ha sempre ossessionato l’Urbe, soprattutto da quando è divenuta grande e affamata, un appetito che nemmeno le conquiste, e tanto meno le imposte, hanno mai potuto soddisfare. Secondo Cicerone le tasse sono giustificate solo dalla continuità dello stato e dei bisogni pubblici. I tributi sono per sé ingiusti, sosteneva Marco Tullio ma in cambio lo stato deve garantire ai cittadini “la pace operosa”. Tutte le leggi che limitavano gli introiti patrimoniali e le spese eccessive, rendevano un pessimo servizio ai sudditi delegittimando l’autorità della Repubblica. Al contrario di quel che si sente e si legge qua e là, Cicerone non scriverà mai che il bilancio pubblico deve essere in attivo, ma si esprimerà sempre per la buona amministrazione. Il criterio fondamentale doveva essere la fides publica: se questa viene meno tutti sono rovinati. I creditori vanno rimborsati e hanno diritto a difendersi da chi non paga, ma non possono imporre fardelli eccessivi ai debitori. Ai suoi tempi, del resto, Roma aveva già attraversato crisi finanziarie acute che avevano imposto il corso forzoso e l’economia urbana era caduta in mano agli usurai. I tassi di interesse in media erano del 22 per cento l’anno, ma potevano salire ben oltre l’usura. Catone il Censore, il grande moralista, era arrivato a chiedere il 36 per cento. E anche Bruto, Catilina, i capi dei popolari praticavano l’usura. Più tardi verrà poi imposto un tetto del 12 per cento, invariato finché Settimio Severo lo dimezzerà. All’epoca di Silla e con la conquista dell’oriente erano affluite enormi ricchezze. Il solo tempio di Saturno conteneva diecimila libbre d’oro (una libbra romana era pari a 327 grammi). Ma come venivano utilizzate? Non solo per costruire opere pubbliche, i templi, i fori, i palazzi che sono giunti fino a noi, ma per comprare voti, distribuendo denaro ai propri seguaci o terre ai propri soldati, ed espropriando i legittimi proprietari. Cicerone si scaglia contro lo stesso Silla e soprattutto contro Cesare. Se aggiungiamo la distribuzione del grano e poi della carne alla plebe oziosa, che avveniva dai tempi dei Gracchi, Roma, già esentasse, diventava sempre più una città assistita.

 

Il male si rovescia dalla repubblica sull’impero. La svalutazione della moneta e l’eterno conflitto tra il fisco e l’erario, cioè tra la cassa del principe e quella dello stato, tormentano Roma nonostante le numerose riforme della coniazione. Caracalla estende la cittadinanza romana e con essa le imposte. Diocleziano mette ordine, con un controllo ferreo dello stato e la riforma monetaria. Costantino lo seguirà su questa strada, ma ormai la instabilità della moneta e la montagna del debito diventano due tare inguaribili. Il costo sempre più alto di una difesa dei confini ormai impossibile, il disgregarsi del consenso nelle province, la frantumazione sociale e la instabilità politica avvicinano a passi da gigante la fine.

 

Sepolta dai debiti la Roma imperiale, non è che la Roma dei papi abbia dato prova di virtù finanziaria. Al contrario, si è arrivati a vendere di tutto, persino le indulgenze non appena ha preso consistenza teologica il Purgatorio, pur di tirar su un po’ di quattrini. E lo sterco del diavolo è diventato a poco a poco uno strumento utile, indispensabile, un premio al lavoro, al tempo, al rischio. L’usura è lentamente regredita, a cominciare dal XIII secolo, da regola in deviazione. Scrive alla fine del Duecento, il secolo della grande svolta, Gilberto di Lessines, allievo del grande filosofo scolastico Alberto Magno: “L’incertezza e il rischio non possono cancellare la natura del lucro, vale a dire l’usura, ma dove c’è davvero incertezza e non calcolo il valore del rischio può rientrare nell’equità della giustizia”.

 

Con il sindaco mazziniano tutte le risorse vanno alla città, che compie un salto nella modernità, il più grande mai realizzato

Sepolta dai debiti la Roma imperiale, non è che la Roma dei papi abbia dato prova di virtù finanziaria. Si è arrivati a vendere di tutto

Erano stati i monaci, non gli ebrei, i primi a prestare quattrini, quei pochi che c’erano, nell’Alto Medioevo, e si era distinto fino all’XI secolo il potente ordine di Cluny. Poi il papato crea una grande amministrazione finanziaria, la prima, che anticipa l’Inghilterra e il Cancelliere dello Scacchiere. “Al vertice della Camera apostolica – scrive il grande medievalista Jacques Le Goff – Innocenzo III, Pontefice dal 1196 al 1215, pose un cardinale che risedeva, come il Papa, nel palazzo del Laterano”. Oggi lo Ior, l’Istituto per le opere di religione, la banca del Vaticano, è un bastione all’interno delle mura.

 

Le crociate si rivelarono un disastro economico per la nobiltà europea e per Roma. Il secolo trascorso ad Avignone serve a riorganizzare anche le finanze, tanto che Luigi IX il santo, re di Francia, si lancia in una filippica contro il Papa adoratore di Mammona. La rinascita dell’Urbe nel XV secolo e poi lo splendore del XVI e XVII secolo, dopo il concilio di Trento, si accompagnano a immense spese per la chiesa trionfante, ma anche a grandi spese per la chiesa riformata che si occupa dei poveri, degli emarginati, delle prostitute, degli orfani da educare al lavoro o allo studio, anche in risposta allo scisma protestante, la chiesa cattolica crea il suo gigantesco e costoso welfare state. E il papa re finisce nelle mani dei banchieri, soprattutto senesi e fiorentini, ma anche stranieri: i Chigi, i Bonsignori, i Medici, i Fugger, i Rothschild che nel 1823 diventano Guardiatesori del Vaticano. Roma non è a buon mercato, ma Roma ha anche dato. Il rigore di Nathan dimostra che si possono mettere i conti in ordine e nello stesso tempo migliorare la città. Una lezione che nessun vuol trarre nel querulo dibattito di questi giorni.

 

E’ tutto uno scaricabarile. Già Ignazio Marino aveva buttato la colpa sui suoi predecessori di centro-sinistra: “Al termine delle amministrazioni di Francesco Rutelli e Walter Veltroni, il debito di Roma era arrivato ad una cifra mostruosa: 22,4 miliardi di euro”. “Notizie e cifre totalmente inventate”, aveva replicato Rutelli. La sinistra cerca di rifarsi con le “malefatte” di Gianni Alemanno che arrivò come commissario e ottenne dall’allora governo Berlusconi una legge speciale su Roma capitale. La Lega che vuol strappare il Campidoglio ai pentastellati adesso si accorge che la Raggi non irradia splendore come il suo nome farebbe pensare. Oltre alle buche nelle strade, si moltiplicano i buchi nel bilancio. Nel decreto crescita, trasformato in una tela di Penelope, vengono scaricati sullo stato 12 miliardi di euro, residuo onere di competenza della gestione commissariale. Dividendo una fetta di pane davanti al cappuccino la signora Raggi, in un video trasmesso in rete, ha voluto spiegare a Salvini che da molto tempo ormai il debito di 500 milioni di euro l’anno è versato per una quota pari a 300 milioni dallo stato e per 200 milioni da Roma Capitale. Una parte consistente di quei 200 milioni proviene da un’addizionale pari a un euro a passeggero sui diritti di imbarco sugli aeromobili in partenza dagli aeroporti della città di Roma (si tratta di circa 50 milioni di persone l’anno), mentre i residenti versano solo un incremento dell’addizionale comunale Irpef dello 0,4 per cento. Insomma, chi paga? Non i romani, ma i turisti, i viaggiatori, gli altri contribuenti italiani. E’ questo il patto che i pentastellati hanno stretto con gli elettori. Non sono i primi, come abbiamo visto, né saranno gli ultimi. Roma gode di un privilegio che non aveva nemmeno con il papa re. “Lo stato rinegozia il debito, capito?” ammicca la vispa Virginia. Quindi di che vi preoccupate? Paga sempre Pantalone. Finché gli reggono le bretelle. I tempi di Nathan non torneranno, è tornata invece la trippa e non solo quella per i gatti.

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