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Nel Def del fallimento si vede il copione di un disastro annunciato

Pier Carlo Padoan

Il documento di economia e finanza ci dovrebbe dire dove sta andando il paese e come il governo lo sta guidando (ammesso che lo stia facendo). In questo senso ci dice molto altro

Qualcuno lo ha chiamato il Def verità. Meglio sarebbe chiamarlo Def confusione, Def incertezza, anzi meglio, Def fallimento della capacità di governo. Qualcuno ha anche detto che il Def non serve e andrebbe eliminato. Val la pena di ricordare che il Def rappresenta il quadro di riferimento delle politica economica, della legge di Bilancio, il quadro che garantisce efficacia e credibilità alla azione di governo. Che mette insieme crescita e sostenibilità, che permette di avere fiducia nel paese. Proprio per questo una valutazione del Def e del dibattito che lo ha accompagnato alle Camere deve andare al di là dei singoli numeri, o magari della disputa su Iva si o no. Il Def ci deve dire dove sta andando il paese e di come il governo lo stia guidando (ammesso che lo stia facendo). In questo senso il documento di economia e finanza ci dice molte cose.

 

Sulla crescita. Al di la dei decimali la crescita è vicina allo zero, e probabilmente ci resterà per il resto dell’anno, malgrado i recenti miglioramenti congiunturali (in buona parte dovuti al ciclo delle scorte). Si dice “è colpa della Germania in forte frenata”. Ma il governo ha penalizzato la crescita almeno due volte. Una volta dal momento del suo insediamento quando grazie a annunci sguaiati e contraddittori ha fatto crollare la fiducia di famiglie e imprese e impennare lo spread, e quindi ridurre la spesa per consumi e investimenti (con conseguenze anche sul lungo periodo). Questo effetto ancora non si è arrestato. (E finiamola con la ipocrita affermazione che sarebbe colpa del governo passato). Una seconda volta con la legge di bilancio e con questo Def, ammettendo che le misure messe in campo, in particolare quota 100 e reddito di cittadinanza, hanno effetti molto modesti sulla crescita. (Questi effetti sono secondo l’Ocse addirittura negativi per quota 100, soprattutto nel medio periodo).

 

Il fatto è che il paese è sull’orlo della stagnazione e il governo è senza strumenti per affrontarla. Rimane tutto da valutare l’impatto del decreto sblocca cantieri e del decreto crescita. Ma ancora non sappiamo la vera entità delle misure (tra cui apparentemente misure già introdotte dai governi precedenti e inizialmente rimosse dal “governo del cambiamento”).

 

Senza crescita del prodotto l’occupazione non cresce, la disoccupazione non si riduce, anzi rischia di aumentare (e lo dice il Def). Invertendo così un trend in corso da diversi anni al di là del presunto effetto iniziale del reddito di cittadinanza sulla disoccupazione che aumenterebbe per via della maggior partecipazione al mercato del lavoro. Malgrado, poi, un corposo Piano nazionale di riforme manca una strategia che metta al centro la ripresa della produttività con misure di natura strutturale. Le due misure chiave, reddito di cittadinanza e quota 100, sono o neutrali o addirittura negative per la crescita di lungo periodo. Intanto la tanto sbandierata enfasi su investimenti pubblici da sbloccare semplicemente non si vede in azione.

 

La finanza pubblica, il Def non lo dice, sta andando fuori controllo – il deficit viaggia su valori ben al di sopra del limite (inizialmente concordato con la Commissione europea ) del 2.0 ma soprattutto il saldo strutturale (al netto del ciclo) peggiora dello 0,1 per cento invece di ridursi, ed è il saldo strutturale che conta per la valutazione della Commissione europea che arriverà in estate. Il debito pubblico, a seguito anche della scarsa crescita (reale e nominale) sta aumentando malgrado l’impatto delle privatizzazioni di cui si prevede, con grande fantasia, un incasso di 18 miliardi, un punto di pil. Nel frattempo la valutazione del rischio Italia, da parte di mercati, agenzie di rating e istituzioni internazionali continua a rimanere negativo. In definitiva se si mettono insieme crescita e finanza pubblica si vede che il paese rischia di entrare in un circolo vizioso di meno crescita, più debito, più rischio, meno risorse per la crescita. Ce lo dice la semplice aritmetica. L’Italia e l’unico tra i paesi dell’Eurozona e la gran parte dei paesi avanzati ove il tasso di interesse, il costo del debito, è superiore al tasso di crescita nominale. Questo, di per se, innesca un movimento “esplosivo” cioè di continua crescita del debito. Per contrastare questa dinamica occorrerebbe far calare i tassi, cioè recuperare fiducia sui mercati, e crescere di più, cioè avere e implementare una strategia di crescita. Ma nessuna di queste condizioni si verificano, né il Def non ci dice come recuperarle. In questo caso, sempre seguendo la aritmetica, serve accrescere il saldo primario di finanza pubblica cioè ridurre le spese a aumentare le tasse. Arriviamo quindi al nocciolo politico che questa semplice aritmetica mette a nudo. Se si sommano gli annunci di autorevoli membri del governo e quanto dice il Def, che è pure un documento del governo, intenzione del governo medesimo sarebbe di: evitare un aumento dell’Iva, introdurre una o più flat tax, accrescere le risorse per gli investimenti , pubblici e privati (e mi fermo qui) il tutto nel rispetto degli impegni internazionali. Ma queste richieste, sommate, sono tali da ridurre fortemente il surplus primario. Anche senza misure aggiuntive (nessuna flat tax) l’Ufficio parlamentare di bilancio calcola che per mantenere gli impegni sui saldi di bilancio occorrerebbe una ammontare di risorse che va da 23 miliardi nel 2020 a 43 miliardi nel 2022. Banca d’Italia ci ricorda che in mancanza di aumenti dell’Iva e senza misure compensative il deficit salirebbe al 3,4 per cento nel 2020 al 3,3 nel 20221 al 3,0 nel 2022. Emerge con grande chiarezza quindi che la somma degli interventi promessi dal governo è incompatibile con il rispetto degli impegni europei e con il quadro apparentemente rassicurante del Def. Viene spontanea la domanda: dove trovare la variabile di aggiustamento? Nel frattempo aumenta l’incertezza, ma l’incertezza ha un costo in termini di rischio che aumenta con il livello dei tassi di interesse. Questo costo lo quantifica Banca d’Italia quando ci dice che un aumento di 100 punti base sui rendimenti dei titoli farebbe ridurre, dopo tre anni, il pil di 0.7 punti percentuali. Per evitare una deriva di questo genere almeno una delle cose che il Governo vuole fare non potrà essere attuata e dovrà essere scartata. O quantomeno i capitoli i riduzione delle tasse o di aumenti di spesa dovranno essere ridotti con qualche criterio che riconduca i saldi entro limiti “accettabili per il rispetto del contratto di governo” e deli impegni presi. Emerge anche una “paradossale” speranza. Che ne le risorse per il reddito di cittadinanza, ne quelle per quota 100, siano pienamente utilizzate, creando cosi uno spazio fiscale involontario. Allo stesso tempo si annuncia il ricorso a una nuova ondata di spending review, (in aggiunta ai 2 miliardi di spesa già congelati nella legge di bilancio). Ci sono, a ben vedere, tutti gli ingredienti di un circolo vizioso. E ancora una volta questo governo con i suoi annunci prima ancora che con le sue misure, fa male al paese. E nel frattempo il pese si sta avvicinando alla prossima legge di Bilancio in condizioni di estrema fragilità. Questo stato di cose si legge chiaramente negli scenari descritti da tutte le istituzioni internazionali, che mettono in luce il continuo aumentare del debito e la crescita inesistente. Elemento comune di questi scenari è la constatazione che, di fronte a un possibile choc negativo o anche del prolungarsi della congiuntura debole la fragilità del paese rischia di tradursi in instabilità fuori controllo. Il governo se ne assumerebbe tutta la responsabilità.

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