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La divergenza di Lega e M5s su Huawei è insostenibile

Alberto Brambilla

L'Italia sia avvicina alla visita di Xi Jinping senza avere chiarito la sua posizione sugli investimenti cinesi

La prima visita di stato del presidente cinese Xi Jinping in Italia, tra un paio di settimane, non può essere accolta con serenità dal governo Lega-Movimento 5 stelle. Come su altre questioni strategiche, dalle infrastrutture alla politica fiscale, i due partiti di coalizione la pensano in modo opposto in merito agli investimenti cinesi, all’adesione al piano di espansione geoeconomica One Belt One Road e alla penetrazione di società legate al governo di Pechino nei sistemi avanzati di telecomunicazioni.

 

Dopo avere promosso un sistema di valutazione comunitario degli investimenti diretti esteri con il precedente governo Gentiloni, l’Italia ha cambiato posizione con il governo gialloverde. Il Movimento 5 stelle si dimostra filo-cinese perché aderisce alle posizioni del sottosegretario al ministero dello Sviluppo economico, Michele Geraci, professore di lungo corso presso tre università in Cina dove ha vissuto un decennio, ha fondato una inedita “task force China” presso il ministero italiano che ha lo scopo di attirare investimenti cinesi in Italia e ha condotto il vicepremier pentastellato e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, in Cina per due volte in meno di un anno.

 

Il meccanismo di valutazione europeo sugli investimenti esteri, diretto in particolare a proteggere le tecnologie avanzate da acquisizioni cinesi, è stato avallato ieri dal Consiglio europeo per avviare una discussione in Parlamento e arrivare a un accordo entro l’attuale legislatura. Il motivo per cui l’Italia non è d’accordo nel creare un meccanismo di valutazione continentale è che comprende la comunicazione tempestiva di investimenti esteri nel proprio paese agli altri partner europei. La stessa motivazione impensierisce anche il Regno Unito che, per di più nelle more della Brexit, non ritiene necessario condividere informazioni con altri, in particolare con la Francia.

 

Il problema è che per evitare la condivisione di informazioni in merito a eventuali acquisizioni societarie da parte di paesi extraeuropei, l’Italia manda il segnale di voler rinunciare a un contenimento comunitario dell’espansione cinese, un controllo considerato prioritario dalla Commissione europea.

 

Nel suo discorso sullo stato dell’Unione il presidente Jean-Claude Juncker aveva dichiarato: “Lasciatemi dire una volta per tutte: non siamo ingenui liberi commercianti, l’Europa deve sempre difendere i suoi interessi strategici. […] Se c’è un’azienda straniera di proprietà statale e vuole acquistare un porto europeo, parte della nostra tecnologia, parte della nostra infrastruttura energetica o un’azienda di tecnologia della Difesa, questo dovrebbe avvenire solo in trasparenza, con controllo e dibattito. E’ una responsabilità quella di sapere cosa sta succedendo nel nostro cortile in modo da poter proteggere la nostra sicurezza collettiva, se necessario”.

 

La posizione italiana ha una ulteriore criticità. Il sottosegretario Geraci, scelto dalla Lega ma poi successivamente avvicinatosi al M5s, ritiene fondamentale che l’Italia diventi “il punto di arrivo” della Belt & Road, un piano euroasiatico di controllo e gestione delle infrastrutture di trasporto, elettrificazione e di telecomunicazioni avanzate. I cinesi si attendono dall’Italia che all’arrivo di Xi Jinping il governo firmerà un memorandum di intesa per aderire al progetto, e sarebbe il primo paese del G7 a farlo, come già sottolineato su questo giornale da Giulia Pompili. Al momento non ci sono conferme ufficiali in merito. Tuttavia l’alleato di governo, la Lega, sta accentuando la propria postura geopolitica vicina alla Amministrazione di Donald Trump che è conflittuale verso Pechino e intenzionata a fermare l’espansione cinese nelle reti di telecomunicazioni di quinta generazione 5G.

 

Il punto di vista degli americani è forse quello di chi s’è accorto in ritardo del rischio di perdere una partita strategica. Il monopolio della rete internet è stato americano per oltre due decenni. Le cinesi Huawei e Zte realizzano a un costo competitivo le reti di nuova generazione, in concorrenza con compagnie europee (la svedese Ericsson) e americane (Cisco). Se la diffusione sarà capillare i cinesi potranno avere il monopolio delle reti ultra-veloci su cui comunicheranno non solo gli smartphone ma anche i dispositivi per domotica e mobilità urbana.

 

Ma le schermaglie tra Stati Uniti e Cina proseguono. Ieri il Financial Times ha rivelato che Huawei potrebbe fare causa al governo americano per aver vietato alle agenzie federali di dotarsi di sistemi della sua azienda. Un’altra puntata nel conflitto sino-americano esasperato dal processo di estradizione in America di Meng Wanzhou, direttore finanziario di Huawei e figlia del fondatore, arrestata in Canada nel dicembre dello scorso anno. Nel frattempo, Washington sta cercando di convincere gli alleati a non adottare le tecnologie Huawei sulla base di sospetti di spionaggio sistematico dei dispositivi mobili e delle reti. Australia e Nuova Zelanda hanno deciso di rifiutare equipaggiamenti Huawei. Germania e Regno Unito preferiscono invece monitorarli attentamente. A sua difesa Huawei ha inaugurato ieri a Bruxelles il centro per la “cyber-sicurezza” per consentire agli operatori europei di testare i suoi prodotti e così rassicurarli.

 

L’Italia non ha una posizione ufficiale mentre aumentano le pressioni americane. Il 20 febbraio scorso l’ambasciatore americano a Roma Lewis M. Eisenberg ha incontrato l’ad di Telecom Italia, Luigi Gubitosi, nella sede romana della compagnia che vede in Huawei un partner d’affari. La settimana scorsa il sottosegretario a Palazzo Chigi, il leghista Giancarlo Giorgetti, è stato in visita negli Stati Uniti e ha detto di condividere i timori americani in merito alla penetrazione di Huawei in Italia. “La preoccupazione degli Stati Uniti rispetto alla politica cinese di Huawei è un problema che riguarda anche l’Italia e non solo. La Cina è individuata come un pericolo. Un fatto che dovremo valutare anche noi come Italia. Dovremo prendere cautele, cose che in Cina non ci sono”. La stessa posizione scettica è tenuta ufficiosamente dalla presidenza del Consiglio, dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, dal ministero degli Esteri e della Difesa. Ieri il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) ha convocato il premier Giuseppe Conte e (per la seconda volta) il ministro dello Sviluppo economico Di Maio sul controverso dossier 5G per chiarimenti.

 

L’ambiguità italiana non potrà durare a lungo né il paese potrà rivelare la sua posizione prima della visita cruciale di Xi Jinping in Italia. Dopo le rassicurazioni leghiste a Washington, se il governo dovesse mantenere la linea filo-cinese del M5s, gli Stati Uniti potrebbero considerarlo uno smacco.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.