Un operaio monta una videocamera di sorveglianza a Pechino (Reuters/Thomas Peter)

Perdere una bicicletta a Pechino

Patrizio Rosso

Nella capitale cinese ci sono almeno quattro videocamere di sorveglianza su ogni lampione che usano l'intelligenza artificiale per raccogliere dati. Reportage dal paese più videosorvegliato al mondo

Sanlitun è il quartiere più futuristico di Pechino. Sede storica delle ambasciate, è una sfilata di grattacieli firmati dai più famosi architetti, centri commerciali di lusso e discoteche che ne fanno il centro della vita notturna pechinese. Sanlitun è anche uno dei progetti pilota del sistema di videosorveglianza pervasiva che il governo sta implementando in tutto il paese. Ogni lampione è appesantito da quattro telecamere che girano incessantemente e riprendono le centinaia di migliaia di persone che affollano i negozi. Stando alla propaganda del governo, lo scopo principale di tutte queste telecamere è la prevenzione del crimine.

 

In effetti, a chiedere ai ragazzi e alle ragazze cinesi che girano per Sanlitun, nessuno dice di sentirsi minacciato dal sistema di videosorveglianza: “Serve per evitare i furti e tenere lontano i criminali”, dicono. Tuttavia a non pensarla così sono i criminali stessi che in una delle vie principali di Sanlitun in bella vista sotto le telecamere accostano i passanti per vendere hashish e marijuana. Si muovono a gruppetti di quattro o cinque, tutti provenienti dalla Nigeria, tutti sui vent’anni. Stando alla legge lo spaccio è punito con la pena di morte. Ciò nonostante nessuno di loro sembra essere preoccupato, il più giovane dice di non aver mai avuto problemi con la giustizia, il suo capo è cinese, probabilmente un mafioso ma non lo ha mai incontrato. Chi controlla le telecamere non si occupa di loro e poi il sistema non è così efficiente. Mi consiglia di andare a vedere io stesso.

 

Andate in una stazione di polizia e dite che vi hanno rubato la bici. Entrerete in una stanza piena di monitor di ultima generazione

Basta andare in una stazione di polizia e dire di aver perso qualcosa per poter visionare i sistemi di sorveglianza. Seguendo il suo consiglio entro in una stazione di polizia e dico di non riuscire a trovare più la bici che avevo legato a un palo due giorni prima. Mi viene chiesto il numero di telefono, il nome cinese e vengo fatto entrare negli uffici della stazione. L’edificio è vecchio e le forniture sgualcite e decrepite. La stanza dei computer stride con il resto della stazione, sebbene i muri siano sporchi e le scrivanie mezze rotte, tutte le pareti sono ricoperte da schermi ultra larghi di ultimissima generazione.

 

L’addetto mi chiede il posto preciso dove ho lasciato la bici e con un codice in meno di trenta secondi riesce a trovare la telecamera giusta. Inizio a sudare freddo e a maledire il giorno in cui ho deciso di seguire il consiglio di uno spacciatore: sicuramente in pochi secondi scoprirà che non ho mai legato nessuna bicicletta a nessun palo. Mi chiede l’ora precisa in cui l’ho lasciata; dico di non ricordare l’ora ma di sapere il giorno. Imbarazzato si gratta la testa e si accende una sigaretta sotto un grosso cartello che vieta il fumo. Mi dice che il sistema non è in grado di mandare avanti e indietro il filmato velocemente e che, nel caso non mi ricordi l’ora precisa del furto, toccherà passare due giorni interni per visionare tutti i filmati. Mi fa capire che non ha intenzione di sprecare il suo tempo così e mi manda via.

 

Fazhi Ribao, rivista ufficiale della Pubblica amministrazione cinese, ha rivelato che Pechino intende raddoppiare entro il 2020 il numero di telecamere di videosorveglianza sparse per il paese, portandole a un totale di 400 milioni di unità (in Italia, secondo un rapporto dell’Anci, ve ne sono due milioni). Il piano del governo prevede che tutte le telecamere siano integrate in un unico database che permetterebbe, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, di collegare a ogni volto un nome, un codice fiscale e un numero identificativo. Si tratta, con ogni evidenza, di un progetto mastodontico alla cui realizzazione concorrono lo stato con le aziende da esso partecipate e tutta una serie di startup, cinesi e americane, vogliose di strappare una fetta di un’industria che dovrebbe raggiungere i 18 miliardi di dollari nel 2023.

 

L’alto funzionario che fa l’approvvigionamento delle videocamere per la città di Pechino ci dice: la tecnologia è ancora indietro

Questo piano di sorveglianza non solo evoca immagini distopiche nell’osservatore occidentale ma anche stride con il contratto sociale che ha retto la società cinese negli ultimi quarant’anni. Dopo gli eccessi e gli eccidi dell’epoca maoista il Partito comunista ha tentato con successo di rimanere al potere offrendo ai cittadini un accordo formalizzato nella Costituzione del 1982. Al Partito il monopolio sulla vita politica del paese così come la direzione dell’economia; alla società civile stabilità, libertà economica, diritto alla proprietà privata e, soprattutto, crescenti opportunità di arricchimento personale. Una linea rossa, tanto sottile quanto informale, ha diviso le reciproche sfere di influenza, sostenuta da un boom economico che non ha paragoni nella storia dell’umanità.

 

Di conseguenza, fino a pochi anni fa i sistemi di controllo e le invasioni della privacy erano una misura riservata ai dissidenti politici e alle minoranze turbolente, i tibetani e gli uiguri in particolare. Lo stato di diritto introdotto e implementato con intermittente successo dalle proteste di piazza Tiananmen in poi, garantiva a chiunque non mettesse in discussione l’egemonia del Partito una serie di diritti. A cambiare il quadro sono stati due fattori: il rallentamento economico e il rapido avanzamento tecnologico. Il primo ha determinato un crescente malcontento della popolazione, soprattutto delle nuove generazioni, che si confrontano con un mercato del lavoro deludente, salari stagnanti, prezzi delle case esorbitanti e un welfare inesistente. Il secondo ha permesso al Partito di intrufolarsi nella vita di tutti i suoi cittadini senza dover cambiare alcuna legge e senza dover rendere manifesto il mutato approccio. Per esempio alla polizia non è concesso di entrare o perquisire l’abitazione di un privato cittadino senza l’autorizzazione di un giudice. Tuttavia nel progetto “Occhi Aguzzi” di cui il raddoppio del numero di telecamere è uno dei pilastri, si prevede che le compagnie che vendono dispositivi per la smart home, incluse telecamere domestiche e apparecchi per monitorare il sonno dei neonati, diano al governo la possibilità di accedere ai filmati e alle informazioni di questi gadget. E’ chiaro così che la polizia può vedere cosa i cittadini hanno e fanno nelle proprie abitazioni senza un mandato e senza che questi ne siano a conoscenza.

 

Ma la sgangherata stazione della polizia in cui ho denunciato il mio furto inventato è una perfetta sintesi del programma “Occhi Aguzzi”: materiale di ultima generazione costato miliardi ai contribuenti, incastrato in infrastrutture fatiscenti, difficile da utilizzare. Questa impressione viene confermata da Huangzhong, un alto funzionario che lavora per la municipalità di Pechino nel dipartimento che si occupa di acquistare materiali per la videosorveglianza. (Questo nome e i successivi sono di fantasia: parlare di questi temi con i giornali occidentali è un alto rischio, e le nostre fonti hanno chiesto di non essere rese identificabili).

 

“La capacità del governo di monitorare e controllare i cittadini tramite sistemi di videosorveglianza è perlopiù sovrastimata. Non tutte le telecamere sono collegate tra loro e l’intelligenza artificiale non è ancora in grado di connettere i volti con un nome. Il punto è che nessuno ha ben chiaro quanto e come funzioni il sistema, per cui i cittadini rimangono nel dubbio e dunque agiscono con maggiore cautela. Ovviamente questo è un equivoco che il governo alimenta”, dice al Foglio Innovazione.

 

Rachel lavora in una tra le maggiori compagnie di produzione di videocamere. Gran parte dei componenti viene dall’America

Un buon esempio, dice Huangzhong, sono gli occhiali con riconoscimento facciale, un dispositivo che ha avuto notevole eco nella stampa internazionale quando, un anno fa, ha permesso alla polizia di catturare un ricercato in una stazione ferroviaria del centro-sud del paese. “Nessuno sa come sia successo, soprattutto perché gli occhiali per riuscire a riconoscere un volto hanno bisogno che il soggetto stia fermo e in posizione frontale per almeno 20 secondi. E’ probabile che il governo abbia ingigantito la notizia”.

  

Il vero punto del sistema, rivela Huangzhong, è l’integrazione con il Sistema di credito sociale, un programma lanciato da Pechino teso a classificare la reputazione dei propri cittadini. L’iniziativa, già in via di sperimentazione in diverse città, mira ad assegnare a ciascun individuo un punteggio di base che sale nel caso si comprino prodotti nazionali, si faccia la carità e si paghino i debiti tempestivamente. Al contrario scende se si infrange il codice della strada, se non si pagano le multe, se si commettono illeciti amministrativi, eccetera. Un punteggio alto dovrebbe dare accesso a tutta una serie di benefici, tra cui sconti nelle bollette, tassi migliori per il mutuo, precedenza in scuole e ospedali; un punteggio basso invece comporta crescenti restrizioni che vanno dall’impossibilità di acquistare biglietti del treno o dell’aereo fino a limitazioni nel comprare casa o nel trovare lavoro.

 

Huangzhong dice che la videosorveglianza dovrebbe essere uno dei cardini del sistema. “In molte città è parzialmente già così: sugli incroci più pericolosi diversi comuni hanno installato delle telecamere che riconoscono chi passa col rosso e ne mettono la faccia su un enorme schermo sopra l’incrocio così da esporlo al pubblico ludibrio. Quello che pochi sanno è che la faccia viene esposta cinque o sei giorni dopo che si è commesso il crimine. La posizione ufficiale è che quello è il tempo necessario al sistema per riconoscere volti e infrazioni. Quello che penso io è che ci sia un essere umano dietro che processa le immagini e seleziona i volti”.

 

Che la tecnologia non sia ancora pronta lo conferma Rachel, una ragazza laureata a Stanford che lavora per Megvii, una delle start up che sviluppa software per il riconoscimento facciale. “Anzitutto la maggior parte dei componenti viene dagli Stati Uniti. In Cina nemmeno i colossi come Hikvision sono in grado di produrre i componenti interni per telecamere a così alta tecnologia. Anche sul lato software siamo ancora distanti dall’avere un sistema affidabile”. Compagnie come quella di Rachel godono di grandi benefici in Cina. Non solo ricevono generosi sussidi pubblici ma anche hanno accesso agli enormi database di cui il governo dispone.

 

Lo Xinjiang, provincia autonoma della Cina occidentale dove vive la minoranza Uigura, è il luogo dove queste tecnologie vengono introdotte e sperimentate con maggiore intensità. Nella provincia, dove sono presenti diversi focolai di terrorismo islamista, Hikvision, colosso tecnologico parastatale specializzato in sistemi di videosorveglianza, ha di recente vinto un bando da 46 milioni di dollari per monitorare le attività dei fedeli nelle moschee. Rachel dice che il problema è che i database forniti dal governo non sono del tutto affidabili, soprattutto in Xinjiang. “Ogni giorno mi occupo di testare questi software, raggiungiamo livelli di affidabilità anche elevati quando si tratta di riconoscere persone di etnia Han (a cui appartiene il 98 per cento della popolazione cinese). Il problema è che i database che abbiamo per addestrare il sistema a riconoscere gli stranieri o gli appartenenti a minoranze è molto limitato. Per cui questi software sono totalmente inaffidabili quando si tratta di riconoscere caucasici o arabi. Così la mia compagnia, come molte altre, sta tentando di entrare nei mercati esteri. Il problema è che in Europa o negli Stati Uniti le leggi sono molto strette e i governi molto sospettosi”.

 

Sull’eticità del suo mestiere Rachel preferisce non rispondere. Dice però che in Cina alla gente questo sistema sta bene. “Alla fine in Cina la fiducia nelle altre persone è bassissima, non si sa mai di chi ci si può fidare. Sistemi del genere danno quanto meno l’illusione che ci sia sicurezza e, soprattutto, ci sia un indicatore per capire se il negozio da cui stai comprando o il ristorante dove stai mangiando è affidabile. Di fondo c’è una differenza culturale con l’occidente che risale a ben prima della rivoluzione comunista”.

 

Un tempo la sorveglianza continua era una misura che il Partito destinava alle minoranze. Oggi riguarda tutta la popolazione

Su questo non ha tutti i torti, basti pensare che fino a 40 anni fa in Cina non esisteva il diritto civile, per cui la legge nella storia plurimillenaria del paese è sempre stata un qualcosa utile a regolare, tramite punizioni, i rapporti tra cittadino e stato. Non deve stupire dunque che un sistema del genere possa essere inteso come naturale sussiego di questa tradizione.

 

Tuttavia quello che rimane da chiarire è lo scopo finale di questo enorme sforzo per aumentare la videosorveglianza. A pensar male sembrerebbe che la lotta al crimine sia in fondo uno specchietto per le allodole. Sempre a pensar male potrebbe essere che, visto il rallentamento economico e un crescente malcontento, il governo si prepari a controllare una popolazione che potrebbe, presto o tardi, sfidarne il monopolio sulla gestione della cosa pubblica e dell’economia.

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