Alessandro Di Battista (foto LaPresse)

Perché il governo tornerà a mettere in discussione l'euro

Enrico Morando

Con 52 miliardi da trovare, serve una via di fuga dalla realtà. Lo scontro su Bankitalia anticipa la campagna per l’Eurexit

Tra gli addetti ai lavori è tutto un interrogarsi: il governo sopravviverà alla decisione finale sulla Torino-Lione, alla definizione di un’intesa (o all’assenza della stessa) in tema di autonomia “ulteriore e particolare” da riconoscere alle regioni che l’hanno richiesta? Difficile fornire una risposta sicura, anche per chi, come me, inclina a ritenere che l’interesse di Salvini e Di Maio a mantenere le posizioni di potere acquisite (e difficilmente replicabili) prevarrà, alla fine, sulle ragioni di contrasto. Del resto, ciò che li tiene uniti – e ha consentito loro di sottoscrivere il famoso “contratto”, senza tradire la sostanza dei rispettivi programmi elettorali – è ben più rilevante di ciò che li divide: la contrapposizione all’Unione europea e l’insofferenza verso la democrazia liberale pesano più della avversione alla Tav. Per entrambi, poi, prendere atto dell’impossibilità di proseguire la collaborazione di governo dopo meno di un anno equivarrebbe ad una esplicita dichiarazione di fallimento, difficilmente foriera di futuri successi elettorali.

 

Sembra invece facile prevedere che in primavera inoltrata – quando comincerà la sessione di bilancio europea, con la presentazione del Documento di economia e finanza 2020-2022 – le forze di governo torneranno a parlare di fuoriuscita dell’Italia dall’euro, facendo riesplodere l’instabilità finanziaria e l’incertezza, che hanno tanto nuociuto al paese dal momento in cui l’Huffington Post pubblicò la prima bozza del “contratto”. Provo a spiegare quali fatti oggettivi stiano alla base di questa previsione.

 

Nei giorni immediatamente precedenti al Natale 2018, il governo dei due vicepremier decide di cambiare la legge di Bilancio, piegandosi al rispetto dell’impegno preso da Conte e Tria coi partner dell’area euro durante l’estate: un saldo strutturale (il saldo al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum) non peggiore, nel 2019, di quello del 2018; e migliore, nel 2020 e 2021, per riprendere il cammino verso l’obiettivo di medio termine (il pareggio strutturale).

 

 

Come hanno fatto, Di Maio e Salvini, a effettuare una così profonda correzione, senza abbandonare l’impegno su pensioni/quota cento e reddito di cittadinanza? Sostanzialmente, hanno agito su quattro versanti della montagna da scalare: riduzione, già nel 2019, della spesa per investimenti; introiti aggiuntivi da privatizzazione pari, nel 2019, a un punto di pil; drastico aumento della pressione fiscale (Iva, soprattutto) nel 2020 e nel 2021; rallentamento della fase di avvio delle misure più costose. Intendiamoci: anche dopo queste quattro correzioni apportate al Bilancio, il saldo strutturale 2019 restava peggiore di quello del 2018 (per l’esattezza, di due decimi di punto), ma il sia pur lievissimo miglioramento programmato per il ’20 e il ’21, accompagnandosi alla constatazione del peggioramento in atto del ciclo economico, ha consentito a tutti di considerare sostanzialmente rispettati sia l’articolo 81 della Costituzione, sia il sistema delle regole europee. Dei “risparmi” di spesa guadagnati con la partenza lenta di quota cento e del reddito di cittadinanza, non è qui il caso di parlare: alla fine, l’una e l’altra misura entreranno in piena applicazione e produrranno gli oneri previsti a regime.

 

E’ invece necessario tornare su quota cento per un aspetto finora troppo trascurato: nei tre anni di applicazione della norma, i lavoratori che matureranno solo dal 2022 le condizioni per l’accesso anticipato alla pensione avranno ottime ragioni per pretendere di non essere esclusi dal beneficio. Per un verso, un’aspettativa difficile da deludere senza pagare un prezzo politico-elettorale rilevante (è quella la coorte di lavoratori baby boomers più numerosa e rivolgerà a Salvini la più semplice delle domande: perché agli altri sì, e a noi no?). Per l’altro verso, un’aspettativa impossibile da soddisfare, senza conseguenze di finanza pubblica devastanti. Né il governo gialloverde potrà cavarsela con un rinvio alle scelte di chi “verrà dopo”: il 2022 è il terzo anno di programmazione. Quindi, il Def 2020-2022 dovrà prendere partito, per il blocco definitivo di quota cento o per la sua estensione agli anni successivi. Perché non dire nulla, neppure in quella sede ufficiale, significherebbe accrescere quella “radicale incertezza” sopra il futuro del nostro debito pubblico e la nostra effettiva volontà/capacità di onorarlo che è il vento che gonfia la vela dello spread. Con le ben note conseguenze. Quanto ai 17 miliardi di introiti da privatizzazioni (da realizzare tutti nel 2019) è già certo che sarà impossibile conseguire l’obiettivo. In primo luogo, perché solo con la forza della legge si potrebbe “obbligare” Cassa depositi e prestiti a farsi protagonista di una frettolosa acquisizione di asset pubblici di simili dimensioni. E una legge di questo tenore riattrarrebbe Cdp tra i soggetti che sono parte della Pubblica amministrazione, ottenendo l’effetto contrario a quello sperato: l’intero debito di Cdp sarebbe infatti riclassificato da Eurostat come debito pubblico. In secondo luogo, perché nel frattempo il governo Salvini-Di Maio riconosce l’urgenza non all’avvio delle procedure per privatizzare, ma ai disegni di legge per rinazionalizzare e ripubblicizzare anche quello che, sia pure parzialmente, era stato portato sul mercato: atto Camera n. 52, “disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque”, prima firmataria Federica Daga (M5S). Secondo laboratorio REF ricerche, questo disegno di legge determina oneri ricorrenti, aggiuntivi rispetto alla legislazione vigente, per circa 2 miliardi l’anno. Più 5 miliardi l'anno per i prossimi 20 anni. Più 15-16 miliardi di oneri una tantum, per il rimborso dei finanziamenti accesi dagli attuali gestori e l'indennizzo ai gestori “estromessi”. E’ credibile che una maggioranza e un governo che – nell’agenda parlamentare – riconoscono l’urgenza dell’approvazione di questo disegno di legge, si considerino contemporaneamente impegnati a realizzare privatizzazioni per 17 miliardi? Poco male, perché si potranno rinviare le privatizzazioni agli anni successivi? Nossignori: la realizzazione di questi 17 miliardi di introiti è la condizione per conseguire, già nel ’19, quell’obiettivo di riduzione del volume globale del debito che il governo ha ritenuto irrealizzabile tramite il miglioramento del saldo strutturale (che ha infatti peggiorato, per la prima volta dopo quattro anni di miglioramenti, per quanto piccoli e inferiori a quelli richiesti dalle regole nazionali ed europee).

 

Veniamo ora all’aumento della pressione fiscale già deciso per il 2020 e il 2021. Per diradare il polverone alzato dal ricorso a parole incomprensibili ai più (della serie: aumento delle clausole di salvaguardia da neutralizzare negli anni che verranno), cerchiamo con un semplice confronto di chiarire le dimensioni del fatto: nel 2013, la pressione fiscale italiana (tutti i tributi, più tutti i contributi, in rapporto al pil) era salita al 43,6 per cento del prodotto. Nei quattro anni successivi, essa è costantemente diminuita (di 0,3 punti nel 2014, di 0,2 punti nel 2015, di 0,7 punti nel 2016 e di 0,2 punti nel 2017). Giungendo così, nel 2017, al 42,2 per cento del pil. La legge di Bilancio gialloverde, per il 2020-21, dispone un tale volume di aumenti di tasse da riportare la pressione fiscale sopra il 43,8 per cento del pil, superando il livello raggiunto con la manovra “Salva Italia” del governo Monti. Sul 2020 e sul 2021, nel bilancio a legislazione vigente “ereditato” dal governo Gentiloni, gravavano disposizioni per aumento di Iva e accise pari, cumulativamente, a 38,7 miliardi. Il governo Salvini Di Maio, lungi dall’iniziare a disattivarle, come si era impegnato a fare nella Nota di aggiornamento al Def, ha disposto ulteriori aumenti, pari, sui due anni, a ben 14 miliardi. Una vera e propria stangata fiscale, che si abbatterà su di un’economia che ha smesso di crescere nella seconda parte del 2018 e ora sta tornando in recessione.

 

E’ la solita solfa delle clausole di salvaguardia, istituite con legge di Stabilità del 2015 e costantemente “neutralizzate” per il primo anno e mantenute per quelli immediatamente successivi? No, purtroppo. Non solo perché, come abbiamo visto, questa volta le clausole non sono mantenute, nel 2020-21, ma aumentate. Ma anche e soprattutto perché fino ad oggi il loro mantenimento negli anni successivi al primo è stato usato per poter credibilmente prevedere la riduzione progressiva del saldo strutturale. Che, infatti, è costantemente diminuito ogni anno rispetto al precedente. Ora invece le clausole debbono essere addirittura aumentate per realizzare la mera stabilizzazione del saldo strutturale al livello del 2018. Ciò equivale a dire che non c’è scappatoia: se devono almeno evitare il peggioramento del saldo strutturale (e i gialloverdi anno imparato quest’anno che questo è un vincolo cui non si può sfuggire), delle due l’una: o lasciano in bilancio gli aumenti di tasse già decisi per 23 miliardi nel 2020 e per 28,7 miliardi nel 2021, o riducono di altrettanto la spesa corrente. Ma questa ultima scelta non è nella disponibilità del governo: la riduzione della spesa per investimenti in questo ordine di grandezza farebbe precipitare il prodotto; la spesa per prestazioni sociali è stata aumentata nel 2019 per finanziare quota 100 e reddito di cittadinanza; la spesa per il personale tende a crescere per i rinnovi dei contratti e già nel 2019 sfonderà i limiti fissati in bilancio, perché non è stato finanziato il rinnovo dei contratti del personale degli enti locali. Resterebbe la spesa sanitaria, che la legge di Bilancio in vigore ha già provveduto a ridurre rispetto alla legislazione vigente; e che non è in ogni caso in grado di sopportare tagli delle dimensioni necessarie per compensare i mancati aumenti dell’Iva. Dunque – senza tornare indietro rispetto al “contratto” e senza rimettere immediatamente in discussione quota 100 e reddito di cittadinanza – non c’è via d’uscita fuori dall’aumento dell’Iva già deliberato. Ma Lega e M5S non sono in grado di sostenere i costi politico-elettorali di una simile scelta… Ne prenderanno atto e rassegneranno le dimissioni? Sarebbe la fine, sia per Di Maio, sia per Salvini.

 

Per questo entrambi torneranno là dove partivano i rispettivi programmi elettorali: basta con la camicia di forza dell’euro, recuperiamo sovranità monetaria. I lavori sono già in corso: c’è l’oro della Banca d’Italia. E’ roba degli italiani. Si può usare per finanziare le politiche che piacciono al popolo. C’è stato il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro? Sì, ma uscendo dall’euro potremo tornare a obbligare Banca d’Italia a comprare debito pubblico alle condizioni fissate dal governo del popolo. Se non è questo il retroterra del conflitto scatenato sulla nomina di Signorini, qual è?

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