L’unico nell’attuale governo a ricordare bene quei giorni è Paolo Savona (al centro nella foto), allora vicino al governatore della Banca d’Italia e poi in Confindustria come direttore generale (foto

Si fa presto a dire austerità

Stefano Cingolani

Quando l’Italia della lira e della spesa pubblica era alle corde. Ripasso a uso degli ideologi gialloverdi

L’austerità è di destra o di sinistra? Di destra direte voi miei giovani lettori, eppure c’era un tempo in cui era di sinistra o meglio, qualcuno a sinistra voleva che lo fosse: parliamo niente meno che di Enrico Berlinguer, il carismatico segretario del Partito comunista italiano. E la sovranità monetaria? Quando avevamo la nostra bella valuta, è la risposta di chi ignora o finge di ignorare da dove veniamo. Pochi ricordano, per esempio, quel che accadde nel fatidico 1976 quando l’Italia della lira, della spesa pubblica e dell’inflazione girava per le capitali con il cappello in mano. Ne scrisse di proprio pugno un protagonista d’eccezione come Aldo Moro mentre era prigioniero delle Brigate Rosse. Per i brigatisti, del resto, era la prova del servaggio, di come la classe dirigente (l’élite si direbbe oggi) aveva tradito le masse (il popolo nel linguaggio contemporaneo) vendendola allo stato imperialista delle multinazionali e alla spectre finanziaria. Ma bussare da questuanti alle porte di Washington anche per lo statista democristiano era una ferita che due anni dopo bruciava ancora. Leggiamo le parole di Moro: “Il prestito fatto dal Fondo monetario internazionale all’Italia era in negoziato da tempo e procedeva con grandi difficoltà. Le condizioni richieste al governo, che io presiedevo con l’on. La Malfa, erano così onerose, da farne apparire non realistica l’accettazione in quella forma. Vi fu a Roma, a tal fine, il segretario al Tesoro, Simon. La trattativa fu lunga, ma inconcludente, perché vi era da parte americana incomprensione della reale situazione dell’Italia ed in conseguenza delle richieste così rigide, che noi ritenemmo di non poter accettare. E ciò malgrado il grande valore, morale più che materiale, del prestito, come apertura di credito anche politica all’Italia. Giustamente lo ha messo in luce più volte il ministro Stammati, rigoroso e intelligente tecnico, cui però sfuggiva sul piano politico che le cifre del disavanzo non tornavano, come non sono tornate dopo, quando si sono fatti i conti con il presidente Andreotti”.

 

Bussare da questuanti alle porte di Washington, nel fatidico 1976, anche per Moro era una ferita che due anni dopo bruciava ancora

Le cifre non tornavano. E non era la Grecia del 2019. Era l’Italia della sovranità limitata, teorema attribuito a Breznev, ma che in realtà dominava l’intera Guerra fredda e non solo nell’Europa divisa in due come un’anguria alla conferenza di Yalta. Il limite era politico, monetario, economico, perché tutto si teneva e si tiene ancor oggi. Ma che cosa accadde allora? Perché rievocare quel passato ormai lontano, quando Luigi Di Maio non era ancora nato e Matteo Salvini aveva solo tre anni? L’unico nel governo gialloverde a ricordare bene quei giorni perché li ha vissuti dall’interno è Paolo Savona, vicino a Guido Carli, il governatore della Banca d’Italia che aveva cominciato quella trattativa, e poi in Confindustria come direttore generale, con Carli presidente, quando si concluse. Una storia vecchia, dunque? Non proprio, ha parecchio da dire a questa Italia in cui molti guardano con nostalgia agli anni della lira, quando la Banca centrale finanziava il disavanzo del Tesoro con un conto corrente e comprava i titoli di stato invenduti, quando non c’era l’unione monetaria, ma un cambio che in Europa era succube del marco e, nel mondo, del dollaro americano libero di fluttuare a piacimento dopo che nel 1971 il presidente Richard Nixon aveva abbandonato il sistema monetario fondato nel 1944 a Bretton Woods.

 

L’Italia era alle corde. Spinta dal balzo dei prezzi del petrolio e dagli aumenti salariali, l’inflazione salì dal 5 per cento del 1972 al 19 per cento del 1974 per arrivare al 21,2 per cento nel 1980. La bilancia dei pagamenti di parte corrente, attiva dal 1964 al 1972, divenne passiva e la perdita di ragioni di scambio era pari al 4,4 per cento del pil nel 1974. La lira dal 1973 entrò in una sorta di doppio regime per le transazioni con l’estero, dal 1972 crisi dei cambi si susseguivano una dopo l’altra nonostante la Banca d’Italia avesse istituito un controllo diretto attraverso restrizioni sui movimenti di capitale di natura amministrativa, fiscale e penale, come ricorda nel suo libro “Ricchi per sempre?” Pierluigi Ciocca, che allora lavorava nell’ufficio studi della Banca centrale. La spesa pubblica aveva compiuto un balzo notevole e improvviso per finanziare le riforme sociali, creando un forte disavanzo pubblico perché le imposte, nonostante il loro aumento non riuscivano a tenerle dietro.

 

Per affrontare l’emergenza, Roma aveva negoziato un prestito con Parigi e Bonn nel giugno 1973, ma non era bastato. Il 31 agosto 1974, così, dopo una trattativa davvero difficile condotta da Guido Carli, il governo italiano guidato da Mariano Rumor aveva ottenuto un prestito dalla Repubblica federale tedesca per 1.300 miliardi di lire, a fronte del quale la Bundesbank aveva voluto in garanzia 515 tonnellate d’oro, fisicamente spostate, a Fort Knox, dal forziere italiano a quello tedesco e in parte da Roma a Francoforte dove la Banca centrale tedesca aveva fatto imprimere il proprio sigillo, l’aquila della Bundesrepublik. Eppure non era stato sufficiente a stabilizzare la lira che nel 1976 subì ben tre attacchi speculativi uno dopo l’altro. Veniamo così al febbraio di quell’anno fatidico, anno elettorale tra l’altro. Il successo del Partito comunista alle elezioni regionali del 1975, quando aveva sorpassato la Dc diventando il primo partito, aveva gettato allarme sui mercati finanziari e nelle cancellerie, a cominciare da Washington. A Palazzo Chigi era tornato Aldo Moro, alla guida del suo quinto governo, al Tesoro c’era per l’ennesima volta Emilio Colombo, alla Banca d’Italia Paolo Baffi. Ma facciamo parlare la stampa dell’epoca.

 

Nella propaganda populista il divorzio dell’81 fra Tesoro e Banca centrale è diventato la causa, con l’euro, del debito italiano

Scriveva il Corriere della Sera: “Per fronteggiare situazioni di emergenza, la Banca d’Italia sta negoziando una serie di prestiti che dovrebbero portare il totale delle nostre riserve dai 600 milioni di dollari attuali a 2,6 miliardi di dollari. Un miliardo di dollari dovrebbe venire dal prestito Cee entro la prima metà di marzo. Sempre entro quella data verrebbe utilizzato un prelievo dal Fondo monetario internazionale (a bassissimo tasso d’interesse) di 530 milioni di dollari mentre alla Bundesbank potremmo chiedere la restituzione di 500 milioni di dollari che avevamo rimborsato anticipatamente sul prestito di 2 miliardi di dollari dell’anno scorso. Questa è la prima linea di difesa. In circostanze eccezionali si può anche ricorrere a 500 milioni di dollari di crediti a brevissima scadenza e a tassi d’interesse di mercato che la Riserva Federale Usa ci metterebbe a disposizione. Calcolando pure perciò un totale di riserve di 3 miliardi di dollari si può già prevedere fin d’ora che più di un terzo verrà speso quest’anno solo per il rimborso degli interessi e di parte del capitale dei debiti contratti in precedenza che attualmente ammontano a 14 miliardi di dollari circa. Gli interessi infatti da pagare ammontano a un miliardo di dollari mentre la quota da rimborsare sarebbe di 2,3 miliardi (i prestiti cioè che vengono in scadenza) ma potrebbe venir ridotta a 300 milioni di dollari se verranno rinnovati, come si prevede, il prestito di 2 miliardi della Bundesbank e quello di 500 milioni di dollari della Gran Bretagna. Con un totale massimo di 2 miliardi di dollari di riserve da gettare sul mercato che la speculazione nei momenti caldi potrebbe bruciare nel giro di 20 giorni (100 milioni di dollari al giorno era il livello raggiunto nei giorni immediatamente precedenti la chiusura del mercato) è difficile considerare questi prestiti come un sicuro argine in difesa della lira”. E infatti non lo fu.

 

Il 5 maggio, il dollaro che dagli anni Cinquanta era stato cambiato sempre attorno alle 620 lire, tocca quota 961. Paolo Baffi prende carta e penna e scrive a Luciano Lama segretario della Cgil, la più grande e potente con confederazione sindacale egemonizzata dal Partito comunista, per chiedere un accordo, un patto sociale, il cui cardine è la revisione della scala mobile dei salari: “Sarebbe un grave errore se chi rappresenta il mondo del lavoro non facesse tutto quanto è in proprio potere per spezzare questa spirale”. La sera stessa, lo ricorda ancora Baffi, “si svolse a Villa Madama una riunione del governo nella quale allo scopo di arrestare la caduta del cambio vennero decisi vari provvedimenti limitativi della libertà dei pagamenti esteri: tra essi il deposito previo per le importazioni, la riduzione dei termini di validità dei conti valutari e l’obbligo di finanziamento in valuta per le esportazioni con pagamento differito. Moro, che presiedeva, osservò nel corso del dibattito che inoltrarsi sulla via delle restrizioni ai rapporti con l’estero era ‘un altro modo di uscire dall’Europa’”. E’ un colpo micidiale alla sovranità monetaria. Anzi, potremmo dire che finisce allora quella gestione della lira cominciata quando la valuta italiana era tornata pienamente sul mercato aderendo nel marzo 1947 al Fondo monetario internazionale. Il passato ritorna, ma non come farsa, tutt’altro.

 

Spinta dal balzo dei prezzi del petrolio e dagli aumenti salariali, l’inflazione salì dal 5 per cento del 1972 al 21,2 del 1980

Nelle considerazioni finali all’assemblea della Banca d’Italia lette il 31 maggio 1977, tirando le somme di quel periodo orribile, Baffi ricorda che “negli ultimi cinque anni il 162 per cento della creazione di base monetaria ha trovato la propria contropartita nei confronti del Tesoro, la frazione di fabbisogno non coperta dalla Banca centrale è stata reperita in misura crescente con debito a breve termine: i Bot che rappresentavano il 6 per cento dei titoli di stato a fine 1973 ne rappresentano il 38 per cento nel 1976”. Sono cresciuti in parallelo tre debiti: quello pubblico, quello privato e quello estero. La Banca centrale si è piegata alle ragioni della politica, ma così facendo ha dato “l’estrema manifestazione della sproporzione tra le dimensioni del bilancio del settore pubblico e l’apporto che esso dà all’efficienza e alla capacità di crescita dell’economia”. Nasce da questa contraddizione l’esigenza di separare Tesoro e Banca centrale, quel divorzio realizzato nel 1981 che oggi è diventato nella propaganda populista la causa (insieme all’euro) del debito italiano. La lettura dei documenti e la ricostruzione basata sui fatti dimostra che è una bugia. Il prodotto lordo, che nel decennio 1964-1973 era salito in media del 5 per cento, scende al 2 per cento nel triennio successivo e questo smentisce un’altra delle falsità che raccontano gli ideologi gialloverdi, secondo i quali la svalutazione della lira aveva favorito la crescita. Infatti, diceva ancora Baffi, “lo sviluppo del reddito è quello consentito dal vincolo esterno, esso è inferiore a quanto sarebbe compatibile con la disponibilità dei fattori della produzione”. Il vincolo esterno, dunque, non nasce con l’euro, ma è la costante di ogni economia relativamente piccola integrata nella economia mondiale e nella politica internazionale. Il prestito del Fmi, del resto, era visto dagli americani come la condizione per aiutare La Dc a tenere a bada il Pci.

 

Nel 1974 la Bundesbank volle 515 tonnellate d’oro a garanzia di un prestito. Nel ’76 tre attacchi speculativi alla lira

Leggiamo ancora le carte parlamentari della commissione Moro: “La stipulazione del prestito ha il retroscena di essere stato contratto dalle due parti per ragioni politiche. Il prestito che giungeva alla sua conclusione dopo tante vicissitudini e nelle circostanze di tempo alle quali si fa riferimento, è il segno di un semi gradimento da parte americana del fatto nuovo della non sfiducia comunista al governo italiano, la quale andava evolvendo in quelle circostanze, non senza traversie, verso un accordo di programma, un’intesa sulle cose, ma un’intesa positiva. Si voleva significare che tutto ciò ormai era accettato o quanto meno tollerato e che, pure nelle nuove circostanze, non sarebbe mancato per l’Italia un apprezzamento americano. Per parte italiana, il prestito era un fatto morale più che economico, il segno di una schiarita politica, la fine del “rischio Italia”, la semi-accettazione del modus vivendi con i comunisti. Per questo non si andò molto per il sottile e si ricorderà che, nella data nella quale doveva essere approvato il bilancio, si dette la cifra del deficit soltanto, come un rituale, per la somma, ricordo a memoria, di circa 14 mila miliardi di lire. Che questa cifra non stesse in piedi, come si è visto chiaramente dopo, non sembrava interessare né il governo, né la Dc, né, grosso modo, qualche altro partito”.

 

Il successivo governo Andreotti, insediato dopo lo scampato pericolo, grazie alla “non sfiducia” del Pci, dovette allungare l’orario di lavoro sopprimendo nel 1977 cinque festività tra le quali l’Epifania e spostandone due alla domenica più vicina. Lama si prese le sassate di Autonomia operaia all’università di Roma e fu costretto a compiere la svolta dell’Eur, imboccando la politica dei “sacrifici” che Enrico Berlinguer chiamava “dell’austerità” pensando che potesse diventare la prima fase di un “nuovo modello di sviluppo” all’insegna della sobrietà e dell’eguaglianza. Le domeniche a piedi introdotte tre anni prima erano state rose e fiori rispetto a quel che sarebbe dovuta diventare l’Italia austera che s’incamminava passo dopo passo verso un socialismo dal volto umano e dai consumi privati essenziali, quando la Fiat invece delle automobili avrebbe dovuto fare gli ospedali.

 

Oggi è un altro mondo? Non del tutto. Certo oggi si va a Bruxelles prima che a Washington. Ma i venditori di illusioni sono ancora tra noi: chi attacca l’austerità ed esalta la decrescita felice; chi dice che svalutando la lira si proteggono i redditi degli italiani; chi sostiene che l’aggiustamento del cambio è lo strumento principe dell’indipendenza economica; chi vuole che la Banca centrale torni a finanziare direttamente i governi; chi giura che il debito pubblico di per sé non conta ed è solo l’adesione all’euro a renderlo così importante. Tutti costoro ignorano la storia e propagano il virus della menzogna. Come in vita sfigurarono la verità saranno sfigurati essi stessi, è la legge del contrappasso; non sarebbe male rileggere Dante di tanto in tanto.

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