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Il giornalino di Gigginoburrasca

Giuliano Cazzola

Un Vamba redivivo non avrebbe bisogno di inventare. Cronaca dei danni (seri) inflitti da Di Maio al paese

Intere generazioni di ragazzi del secolo scorso, dopo aver coltivato i buoni sentimenti ispirati dalla lettura di “Cuore”, si concedevano un po’ di svago sulle pagine del “Giornalino di Gianburrasca” di Luigi Bertelli, più noto per lo pseudonimo di Vamba. Il racconto si svolgeva attraverso le pagine del diario di Giannino Stoppani, un arguto monello toscano che ne combinava di tutti i colori (da qui il nomignolo di Burrasca) nei confronti dei famigliari, degli insegnanti, degli amici e persino degli animali domestici. Un Vamba redivivo non avrebbe bisogno di inventarsi un personaggio per sollecitare un po’ d’ironia. Gli basterebbe – magari cambiando format e scrivendo per gli adulti – narrare le imprese di un pluriministro della Repubblica, tal Giggino Di Maio da Pomigliano d’Arco. Certo. Andrebbe colta (Vamba lo farebbe) una sostanziale differenza. Giannino Stoppani era consapevole del fatto che le sue erano marachelle. Giggino Di Maio riesce invece a suscitare ilarità quando crede di parlare seriamente. Per di più, taluni dei suoi “scherzi’’ non si sono limitati a maltrattare la pianta di geranio della zia, ma hanno prodotto danni rilevanti all’intero paese (e non solo).

   


Appena avvertita aria di governo si è messo a minacciare di impeachment Mattarella, salvo far finta di nulla il giorno dopo


      

Appena ha avvertito aria di governo il nostro Gigginoburrasca si è messo a minacciare di impeachment il presidente della Repubblica, salvo far finta di nulla il giorno dopo. E’ nel suo stile rilasciare dichiarazioni gravissime e poi rifugiarsi in una subitanea amnesia (come quando minacciò di andare in Procura la mattina seguente per denunciare la presunta manomissione – da parte dei suoi alleati – di un testo di legge sul condono fiscale). Divenuto superministro dello Sviluppo economico e del Lavoro (così poteva attraversare a piedi via Veneto) ha inaugurato l’incarico convocando alcuni rappresentanti dei rider definendoli l’esempio di una generazione dimenticata. Tanto che dopo alcuni incontri se ne è dimenticato pure lui. Venuto alle prese con il processo legislativo, il neoministro, che per cinque anni era stato vice presidente della Camera, ammise di scoprire per la prima volta che le norme di spesa (ah! La burocrazia!) dovevano essere “bollinate’’ dalla RGS. Alle prese con il suo primo cimento legislativo (il c.d. decreto dignità) fece scoppiare lo scandalo della “manina”. Una tabella contenuta nella relazione tecnica del decreto certificava una diminuzione – peraltro contenuta – di posti di lavoro in conseguenza delle modifiche apportate alle regole del contratto a termine, con particolare riferimento al ripristino della causalità (la norma – per inciso – era copiata pari pari da un documento della Cgil) dopo i primi dodici mesi di durata. Successe il finimondo. Gli autori della tabella furono accusati di concorso esterno in infiltrazione notturna a scopo di caciara. Si cercarono i responsabili e i mandanti: i primi negli uffici del Mef, i secondi nei soliti poteri forti. Poi, scoperta la fonte (l’Inps) tutti se la presero con il presidente Boeri. Le ricostruzioni giornalistiche dimostrano che Di Maio era in possesso (e avrebbe potuto conoscerne il contenuto se avesse letto le carte) da settimane di quella tabella, anche perché la stessa si limitava a spiegare i motivi delle coperture finanziarie contenute in un articolo del decreto per fare fronte alle minori entrate fiscali e contributive derivanti proprio dagli effetti negativi sull’occupazione. In sostanza la “manina” era la sua, ma non si era accorto di avercela messa.

   

Non si era ancora chiuso lo stupore per quella vicenda che scoppiò il caso Ilva. Quando ormai il tempo per salvare la grande acciaieria (pugnalata ripetutamente da molte mani) stava per scadere, Di Maio formulò gravi sospetti di illegittimità in occasione di una comunicazione urgente alla Camera. Di quali vizi (del bando, della gara e dell’assegnazione ad Arcelor-Mittal) si trattasse non si è mai saputo se non per alcune vaghe considerazioni svolte nel parere richiesto all’Anac, il cui presidente affrettò a prendere pubblicamente le distanze dal ministro se mai avesse voluto servirsi (possiamo scrivere strumentalizzare?) di quel testo per fare saltare l’operazione di salvataggio del gruppo. Poi Di Maio si rivolse all’Avvocatura dello stato per sapere se, nella sua qualità di ministro, fosse abilitato ad annullare in funzione di autotutela la gara perché inficiata da illegittimità. Avendo ricevuto anche in quella circostanza un parere negativo, dopo aver vagheggiato pubblicamente di un “delitto di stato” contro il quale non gli restava nessuna possibilità di intervenire, si rassegnò a consentire alle parti di raggiungere un accordo. Anche in quel caso Di Maio se la era suonata e cantata da solo. Perché tutta questa messa in scena spinta fino al punto di affermare e ribadire delle considerazioni gravissime senza la minima prova? Secondo la (a)moralità populista faceva aggio sull’opinione pubblica evocare, senza curarsi troppo della loro reale presenza e degli eventuali effetti devastanti, i fantasmi dei brogli, delle pastette – magari con un po’ di corruzione appresso – delle “manine” eterodirette dalle lobby e dalle consorterie. Tralasciamo, proseguendo nella cronaca, le quotidiane battute arroganti nei confronti delle istituzioni europee, dei partner internazionali, degli avversari politici. Ci accontentiamo di segnalare un singolare exploit sfavillante di sdegno (“Sia dannato il giorno in cui venne fatto il Jobs Act. Chi lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico”) prima di commentare l’episodio che ha confermato la statura di leader politico di Gigginoburrasca.

   


I riders generazione perduta, la “manina” che poi era la sua, distratta, i conti farlocchi della manovra, il ddl dignità, la Francia   


   

Archiviati i festeggiamenti sul balcone di Palazzo Chigi e il giuramento di non mollare – lui e il sodale in divisa – il deficit del 2,4 per cento, incuranti dello spread e della minaccia della procedura di inflazione, dopo l’accordo con la Commissione, occorreva spiegare ai propri elettorati i motivi dell’abbandono della linea del Piave, soprattutto perché veniva ribadito che non sarebbero cambiate le regole né ridotta la platea degli interessati a quota 100 e al reddito (e alla pensione) di cittadinanza. Con quali argomenti Gigginoburrasca ritenne di poter giustificare questo miracolo? Durante un Forum organizzato dal Fatto quotidiano, il “capo politico” svelò l’arcano. “A settembre ci siamo visti con Conte, Tria e Salvini, credo nella sera della festa sul balcone. E li abbiamo fatto l’elenco delle misure fondamentali in modo molto naturale. E il conto finale – raccontò il vice premier superministro – portava a una manovra del 2,4 per cento. Ma non avevamo ancora le relazioni tecniche. E abbiamo previsto più soldi del necessario’’. Facciamo insieme l’esegesi del testo: 1) il deficit del 2,4 per cento è stato calcolato “in modo molto naturale” (col pallottoliere?); 2) quel “numeretto” è stato difeso per settimane, fino ad essere inserito – come saldo – nel ddl di bilancio poi approvato dalla Camera; 3) l’insistenza sul 2,4 per cento – come saldo irrinunciabile e prova della riconquistata sovranità – determinò l’evaporazione di decine di migliaia di miliardi di capitalizzazione, la fuga degli investitori, la mancata sottoscrizione dei titoli di stato e il rischio dell’apertura di una procedura di inflazione da parte della Ue in un contesto di totale isolamento dell’Italia. E Di Maio ha spiegato che tutto questo cataclisma fu causato da un errore di calcolo. “Xe pèso el tacòn del buso”: direbbero i veneti. Smaltita la sbornia per l’approvazione della legge di bilancio del popolo hanno iniziato a piovere dati economici preoccupanti. Gigginoburrasca, non si è scomposto: ha dato la colpa al governo precedente e alle sue politiche di austerità. La maggioranza gialloverde avrebbe risposto da ora in avanti. Questa idea che la politica entri in apnea tra una manovra e l’altra e che nel frattempo non succeda nulla è troppo ingenua per essere onesta. I mercati seguono gli andamenti dell’economia ora per ora. E se dopo 14 trimestri consecutivi di crescita il 15° si è presentato con un segno negativo (come si teme anche per il 16°) è difficile sostenere che sia responsabilità dell’esecutivo che ha operato, in ordinaria amministrazione, per qualche mese all’inizio del 2018. Il governo giallo-verde ha provocato più danni al paese con i discorsi a vanvera che con gli atti legislativi.

   

Infine, Gigginoburrasca, intascato il decreto sul reddito di cittadinanza, non poteva lasciare quota 100 a Matteo Salvini. Ha creduto fermamente che quello che lui chiama lo sblocco del turn over avrebbe prodotto due, forse tre assunzioni di giovani per ogni pre-pensionato. Poi qualcuno gli ha spiegato che non c’era alcun motivo perché le imprese aumentassero del 20 per cento gli organici complessivi. Ma ce ne ha messo a capire. Infine, durante le festività è tornato in patria, Dibba, l’eroe dei due mondi, ancor più movimentista di quando era partito, pronto a difendere dagli attacchi dei gringos Nicolas Maduro, perché protagonista della decrescita (in)felice del Venezuela. Per festeggiare il suo ritorno Gigginoburrasca si è messo ad elogiare i gilet gialli, i quali hanno commentato quel gesto di solidarietà traducendo in francese il classico “non ce ne può fregar di meno’”. Ma il superministro prosegue per la sua strada; non si rassegna al fatto che vi siano delle autorità, come la Banca d’Italia, che parlano “ex cathedra” di recessione mentre lui intravvede l’avvento di un nuovo miracolo economico. Intervenendo all’Assemblea dei consulenti del lavoro Di Maio ha lasciato basito l’uditorio con la profezia delle “autostrade digitali”. Dovevamo aspettarcelo: la Casaleggio Associati è il Galileo del secolo. Non passa giorno senza che Gigginoburrasca non me combini un’altra delle sue. Si è messo ad accusare la Francia di neocolonialismo in Africa e non ha desistito neppure dopo le proteste ufficiali d’Oltralpe. Ma – quel che è peggio – il Tg2 non ha esitato un solo momento, la sera stessa della dichiarazione di Di Maio, a diffondere un servizio che avvalorava quelle tesi.