Luigi Di Maio con Vladimir Putin (foto LaPresse)

The apprentice Di Maio

Daniele Raineri

Vedi mai che, assalito dalla realtà della politica estera, Giggino esca dalla sua bolla grillina di quart’ordine

Roma. Si dice che quando Franco Frattini arrivò alla Farnesina da neoministro degli Esteri non sapesse l’inglese e che – dopo la débâcle di un collegamento video che andò male perché lui non aveva voluto un traduttore a fianco – recuperò con un’ora e mezza di studio tutti i giorni per sei mesi. Certamente ci sono staff di traduttori a disposizione, ma la politica estera si gioca in fondo sugli incontri personali con una varietà immensa di soggetti da tutto il mondo e quelli vanno affrontati faccia a faccia – senza contare i bilaterali velocissimi a margine dei vertici più importanti dove si decide tutto nel giro di quindici minuti e non si può stare a ruminare troppo.

 

Adesso alla Farnesina arriva il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che ha senz’altro meno esperienza di Frattini, e in tanti hanno già fatto battute e dichiarazioni pubbliche di disprezzo senza vedere che il paese è davanti a un umanissimo romanzo di formazione. Adesso non sarà interessante stare a vedere come Di Maio cambierà la politica estera – non può, se è furbo si limiterà a dire lo stretto necessario e a seguire le indicazioni dei collaboratori – ma sarà interessante vedere come la politica estera cambierà Di Maio, che per anni ha vissuto dentro alla bolla della propaganda grillina e che adesso si trova a fare i conti con il mondo reale. Il mondo reale, sì, quella entità molto più potente del cosiddetto paese reale di cui i grillini si dicono gran conoscitori. Un luogo smisurato dove le formule della retorica dimaiana non sono ascoltate.

 

Prendiamo la guerra civile in Libia che ha fatto più di mille morti in sei mesi e che riguarda molto da vicino l’Italia per ragioni che attengono all’energia, al terrorismo, all’immigrazione e altre ancora. Nel maggio 2017 Di Maio durante una visita a Detroit disse che i paesi occidentali che hanno interessi petroliferi nel paese non sono credibili per riconciliare le fazioni locali e che quindi la pace dovrebbe essere mediata dal Venezuela. Lo direbbe di nuovo? Davvero si può pensare che un ministro che ad agosto giurava che non avrebbe mai fatto un governo insieme con il partito di Bibbiano e che ieri invece lo ha fatto s’impunterà sulla questione libica? Davvero si può pensare che un politico che ha chiesto l’impeachment del presidente Mattarella salvo poi giurare due volte da ministro nelle sue mani s’irrigidirà su qualche posizione bizzarra per l’Italia? No. E’ invece ragionevole pensare che lascerà cadere i grillismi di quart’ordine, che chiederà consiglio e che sarà contenuto il più possibile in modo che non si vedano gli scivoloni. Di Maio ministro degli Esteri non andrà in televisione ad annunciare di avere abolito la guerra.

 

“Non sarebbe meglio che gli americani sganciassero soldi sulla popolazione siriana, invece che bombe?”, chiese nell’aprile di due anni fa. Ecco, è possibile considerare che pure queste cose scompariranno dal suo repertorio ora che sarà in contatto diretto con il dipartimento di stato americano – un po’ come certi modi di dire che usiamo da adolescenti e che vanno via quando diventiamo adulti. Ancora un esempio: i gilet gialli, anzi la frangia violenta dei gilet gialli, che lui andò a visitare in Francia e con cui sfoggiò familiarità al punto che il governo francese s’infuriò e richiamò l’ambasciatore (poi i rapporti si normalizzarono). Il nuovo Di Maio in versione estera potrebbe scoprire il piacere delle frequentazioni europee e i rapporti con i suoi parigrado e con gli ambasciatori, lui che non poteva nemmeno dire di avere fatto il militare a Cuneo.

 

Il ministro si presenta vergine di fronte alla varietà e alla pericolosità del mondo: Hezbollah, il backstop al confine irlandese, la questione aperta fra Turchia e curdi, la guerra in Libia, gli ultimi quattordici mesi del primo e forse unico mandato di Trump in America, le elezioni in Tunisia, i negoziati con i talebani, la rivolta popolare a Hong Kong, il Venezuela, l’Algeria, il Sudan, la guerra dei dazi con la Cina, gli stati dei Balcani che vogliono entrare nell’Unione europea. Come in ogni romanzo di formazione, ci saranno momenti deprimenti (soprattutto per il paese). Ma lui potrebbe approfittare di questa nomina alla Farnesina per fare quello che non ha fatto in quattordici mesi di duello perdente con Salvini, potrebbe impratichirsi degli ingranaggi del mondo, potrebbe cominciare a nutrire uno scetticismo informato sulle semplificazioni a cui era assuefatto, potrebbe prendere gusto al cosmopolitismo. We hope things will turn out fine.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)