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Così l'elefantiasi dello stato ha evitato di praticare una buona Austerità

Stefano Cingolani

Un libro di Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi spiega perché siamo immobili

Roma. Come mai l’Italia è l’unico paese europeo in recessione? Sarà credibile la “ripresa incredibile” annunciata da Giuseppe Conte? Perché Matteo Salvini s’è rimangiato la riduzione delle tasse? E dove ci porta la spesa assistenziale in deficit? Per trovare qualche risposta bisogna leggere il libro di Alberto Alesina, Carlo Favero e Francesco Giavazzi appena pubblicato da Rizzoli (“Austerità”, con prefazione di Ferruccio de Bortoli, il titolo dell’edizione originale per la Princeton University Press è “Austerity, When It Works and When It Doesn’t”).

 

Attenzione, non si tratta di un pamphlet, ma di un robusto tomo di 352 pagine, non riguarda il presente, né divina il futuro e non tratta dell’Italia in modo prevalente (anche se comincia non a caso con la storia del debito pubblico italiano). Il volume è la più ampia, accurata e ricca ricostruzione delle politiche di riequilibrio dei conti pubblici nei paesi industrializzati, più o meno impropriamente chiamate austerità. Ha dietro un chiaro impianto teorico, non si riduce in alcun modo a una collezione di ricette fiscali né a una narrazione fenomenologica, tuttavia gli autori hanno verificato la loro impostazione neo-keynesiana (aggiornata soprattutto con la teoria delle aspettative e con l’impatto dei mercati finanziari aperti), confrontandola con i fatti, cioè con le scelte compiute dai singoli paesi, le loro motivazioni e soprattutto i loro effetti. Viene fuori un campionario diverso, con alcuni fondamentali tratti comuni.

 

La cosiddetta austerità è “quasi sempre un tentativo di correggere gli errori del passato”, una cura inevitabile quando i conti pubblici sfuggono di mano. Può essere più o meno dolorosa e più o meno efficace dipende da come, quando e da chi viene introdotta. Hanno torto sia i fanatici difensori del pareggio di bilancio sempre e comunque (gli ortodossi tedeschi per esempio) sia chi è convinto che la crescita sia una conseguenza diretta dello spendi e spandi, tanto il debito pubblico non conta (gli ideologi giallo-verdi per intenderci). Il deficit spending è necessario in recessione, purché poi si riduca quando arriva l’espansione. Ma i risultati più importanti dell’analisi di Alesina, Favero e Giavazzi sono altri.

 

“Abbiamo riscontrato – scrivono i tre economisti – una differenza molto grande negli effetti che i piani basati sulla spesa e quelli basati sulle tasse producono sul pil. I tagli alla spesa sono solitamente associati a lievi recessioni. Una riduzione del deficit pari all’1 per cento e basata su tagli alla spesa è in media associata a una deviazione del pil dal tasso di crescita medio del paese inferiore allo 0,5 per cento, e questa deviazione non dura solitamente più di un paio d’anni”. Ciò dipende “dalla presenza nel campione di episodi più recessivi e di episodi che invece sono stati associati ad aumenti della crescita del pil (la cosiddetta austerità espansiva, definita come una situazione in cui un aggiustamento fiscale si accompagna a un tasso di crescita del pil che è più alto del tasso di crescita medio osservato per i paesi del campione). Al contrario, i piani basati sulle tasse sono associati a recessioni profonde: perdite di produzione pari al 2 o 3 per cento del pil per una riduzione del deficit pari all’1 per cento del pil. Queste recessioni durano inoltre parecchi anni”.

 

E’ più difficile per i governi agire riducendo la spesa, soprattutto per ragioni politiche. Nei paesi dove lo stato tiene in mano oltre metà del prodotto lordo, la spesa pubblica è l’alimento fondamentale del consenso politico. E’ vero che aumentare le imposte crea reazioni negative, tuttavia c’è l’impressione che sia un impatto una tantum e in paesi ad alta evasione fiscale esistono sempre mille scappatoie. L’Italia rientra esattamente in questo caso. Alla crisi del 2011 la risposta del governo Monti è stata un rialzo brusco della tassazione che ha avuto immediati e pesanti effetti recessivi. La riduzione della spesa è stata affidata all’aumento dell’età pensionabile e al rinvio degli investimenti. Tuttavia la quota di spesa pubblica corrente è rimasta sostanzialmente inalterata (le varie spending review non hanno invertito la tendenza). I governi successivi hanno aggiustato, in parte edulcorato la pillola, ma non hanno cambiato ricetta.

 

Le conclusioni alle quali sono arrivati Alesina, Favero e Giavazzi possono essere lette anche in senso inverso: per favorire la ripresa è meglio ridurre le tasse che aumentare la spesa corrente. E qui possiamo trovare la risposta alle domande dalle quali siamo partiti. Il governo gialloverde ha scelto di allargare la spesa assistenziale, non solo non ha abbassato le imposte, ma la pressione fiscale aumenterà quest’anno. Sul 2020, poi, pende la spada chiamata Iva. Il rischio, dunque, è che l’Italia viva nel peggiore dei mondi possibili, con alta spesa, alte tasse, un debito crescente, una crescita calante, insomma il quadrilatero tragico della politica economica populista. Non è scritto esattamente così nel libro, ma questa può essere la conclusione delle conclusioni.