Foto Imagoeconomica

Europa ed euro devono ritrovare la via della crescita sostenibile o la crisi non passerà

Pier Carlo Padoan

Perché una politica volta a rafforzare la crescita inclusiva e una agenda per l’economia “reale” e non più solo per la moneta devono essere parte di un’unica visione che ancora in gran parte manca

Negli anni immediatamente precedenti alla introduzione dell’euro ci si interrogava sui problemi che una unione monetaria avesse incontrato viste le significative differenze strutturali tra le economie nazionali e l’assenza di un meccanismo di redistribuzione di tipo federale (modello Usa). Erano le due condizioni principali suggerite dalla teoria delle “aree valutarie ottimali”. Chi vedeva la cosa con ottimismo riconosceva la presenza di diversità strutturali ma confidava nel fatto che, per sopravvivere e prosperare in una unione monetaria (e dimenticarsi delle svalutazioni competitive), i governi avrebbero accelerato le riforme necessarie per accrescere la competitività e le imprese avrebbero risposto con gli investimenti necessari per beneficiare delle riforme stesse. In questo modo l’euro si sarebbe aggiustato “endogenamente” alle pressioni poste dalla unione monetaria.

 

Le cose non sono andate proprio così. C’è stata una crisi finanziaria di dimensioni epocali, nata negli Usa ma con diramazioni ed estensioni significative nell’Eurozona. C’è stata una recessione che ha prodotto una calo della produttività a livello continentale che solo molto di recente si è arrestata. Ma la crisi ha anche prodotto divergenze e aumento della frammentazione tra i paesi membri e all’interno dei paesi membri. La frammentazione ha investito diverse dimensioni: nel reddito pro capite, nella crescita regionale, nella performance delle imprese (tra quelle sulla frontiera tecnologica e quelle che ne sono distanti ) nella distribuzione di ricchezza, nell’accesso alle tecnologie digitali come dell’accesso ai sistemi di protezione sociale, e più in generale in un aumento della diseguaglianza. Giusto o sbagliato questa deriva di divergenza nelle economie e nei sistemi sociali nazionali è stata attribuita al processo di integrazione europea e all’euro in particolare.

 

Oggi Europa ed euro devono ritrovare la via della crescita sostenibile e della convergenza, a maggior ragione in presenza di attese negative sulla crescita dei prossimi trimestri. Ripresa della produttività e convergenza si sostengono a vicenda. Ma questo richiede uno sforzo strutturale e non (solo o semplicemente) di sostegno alla domanda. In altri termini affinché l’euro continui a prosperare occorrono riforme strutturali (lo ripete continuamente Mario Draghi avendo in mente che le riforme servono a facilitare il compito della politica monetaria). Veniamo così a un ostacolo politico sul futuro dell’euro: lo scarso consenso a una politica di riforme che si è affermato in Europa. La diffusione di una reform fatigue è testimoniata tanto dall’evidenza empirica sul progresso delle riforme in Europa (vedi il rapporto dell’Ocse 2018 su Eurozona) sia dalle manifestazioni politiche (dai gilet gialli ai programmi populisti e sovranisti).

 

Tale reform fatigue non può sorprendere, con il senno del poi, vista la tendenza alla frammentazione e alla divergenza che alimenta diseguaglianza e rallentamento della crescita. Ma questo stato di cose non è sostenibile. Pena la ulteriore frammentazione dell’Europa, forse fino alla disintegrazione. E richiede una risposta alla luce delle elezioni europee in arrivo e della sfida del populismo e del sovranismo . Richiede che il (poco?) capitale politico ancora in possesso delle forze europeiste venga investito in un cambiamento o quantomeno in un arricchimento dell’agenda economica. In direzione di una politica volta a rafforzare la crescita inclusiva. Una agenda per l’economia “reale” e non più solo per la moneta. Le due cose si rafforzano (o cadono) assieme e devono essere parte di un’unica visione che ancora in gran parte manca.

 

Qualche timido passo avanti e stato fatto all’ultimo Ecofin con la proposta di “considerare” un bilancio per la zona euro che comprenda uno strumento di sostegno alla convergenza reale. Non sembra procedere invece la proposta (da anni caldeggiata dall’Italia) di un meccanismo di assicurazione contro la disoccupazione ciclica. Sono in ogni caso timidi passi, magari utili per lanciare il segnale che la politica economica si occupa anche di crescita e di lavoro. Ma forse non sarà abbastanza per riconquistare il consenso non solo all’euro (che paradossalmente sta aumentando) ma anche per una politica di crescita inclusiva e sostenibile.

Di più su questi argomenti: