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Abolito il lavoro, non la povertà

Renato Brunetta e Giuliano Cazzola

Un reddito di cittadinanza che creerà iniquità. Una quota cento truffa per gli elettori. Il welfare del governo gialloverde spiegato con paella e ribollita

Dopo mesi di “tradizione orale” – come se la controriforma delle pensioni e l’istituzione del reddito e della pensione di cittadinanza fossero un poema omerico da diffondere attraverso gli aedi – il governo ha scoperto l’esistenza della scrittura, e ha reso noto, finalmente, il tanto atteso testo del decreto legge. Quanto al reddito di cittadinanza, l’impianto – su cui torneremo – è una specie di Disneyland in cui sono rimescolati, in caricatura, più o meno tutti gli istituti che riguardano il mercato del lavoro. Sulle pensioni, partiamo con una domanda a proposito di quota 100 (e dintorni), la formula destinata – secondo la propaganda di regime – a restituire agli italiani il diritto alla quiescenza. Che cosa succederà della riforma Fornero? Per anni il vice ministro Matteo Salvini ha “pasturato” il suo elettorato accusando di macelleria sociale il famigerato articolo 24 del decreto Salva Italia (convertito nella legge n.214/2011); non ha esitato a portare le truppe sotto la casa dell’ex ministro; ha spergiurato, urbi et orbi, che, con il suo arrivo al governo, quelle norme sarebbero state abrogate, stracciate, vilipese, nel giro di mezz’ora. Poi, strada facendo, la condanna al patibolo è stata tramutata in un vago “superamento” attraverso, appunto, la possibilità di andare in quiescenza facendo valere 62 anni di età e 38 di anzianità contributiva. Ci si aspettava che si trattasse dell’aggiunta di un percorso parallelo (sovraccarico di limiti e divieti), di carattere sperimentale per un triennio (quota 100, appunto), destinato a coesistere con i requisiti del pensionamento anticipato introdotti nel 2011. In caso contrario, le due colonne d’Ercole (età e anzianità) in concorso tra di loro avrebbero potuto determinare per molti soggetti la ripetizione dell’effetto Fornero: ovvero allontanare, di anni e di colpo, l’accesso alla pensione e soprattutto rendere non conveniente “quota 100”. Facciamo l’esempio di un lavoratore (il maschile non è causale perché saranno soprattutto i maschi residenti al Nord ad avvalersi della nuova via d’uscita), nato nel 1960, che abbia iniziato a lavorare a 16 anni. Nel 2019 avrebbe maturato, a 59 anni, il requisito di 43 anni e 2 mesi ora previsto. Gli sarebbe consentito, quindi, di andare in quiescenza grazie alle regole made by Fornero (che non richiedono un requisito anagrafico per usufruire del trattamento anticipato) senza dover aspettare altri tre anni per raggiungere quota 62. E’ altrettanto facile dimostrare che vi sarebbero stati, nel triennio 2019-2021, altri casi di lavoratori precoci a essere penalizzati dall’introduzione di un requisito anagrafico minimo (i 62 anni) per avvalersi del pensionamento anticipato. Inizialmente – prima dell’abrogazione delle norme relative – anche la disciplina del 2011 prevedeva un limite dei 62 anni per il trattamento d’anzianità. Ma non era un vincolo preclusivo del diritto al pensionamento; si limitava a una modesta penalizzazione economica per chiunque avesse intrapreso il percorso dell’uscita anticipata avendone maturato il requisito contributivo ordinario prima dei 62 anni. In sostanza, se fosse stata sostituita in toto la disciplina vigente, il requisito dei 62 anni (di quota 100), avrebbe potuto trasformarsi in una sorta di scalone, per diverse generazioni di baby boomers. L’età effettiva alla decorrenza delle pensioni di anzianità, ancora nel 2018, risultava mediamente inferiore ai 62 anni (il che significa che molti maturano i requisiti prima dei 60 anni).

 

Grazie Salvini, grazie Di Maio. Abbiamo capito la vostra filosofia: ritenete il lavoro un male da cui fuggire il più presto possibile

Il reddito è un puzzle che pretende di tenere insieme la lotta alla povertà, le buone pratiche di inclusione sociale e le politiche attive del lavoro. Produrrà il contrario

Per altro il numero dei pensionamenti di anzianità è costantemente crescente, tanto che, nel Fpld-Inps, fatto uguale a 100 il flusso nel 2018 dei trattamenti di vecchiaia, quelli anticipati hanno raggiunto 229. Ci sarebbe stata, quindi la possibilità, che “quota 100” potesse creare qualche problema, per via del requisito dei 62 anni, ai pensionandi “ancien régime” (con storie contributive molto lunghe conseguite ad un’età anagrafica inferiore). Così, per stare tranquillo, il governo ne ha combinata un’altra delle sue: ha bloccato le regole ex Fornero per la quiescenza anticipata ai valori previsti nel 2018 (42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne) sospendendo (anche per i c.d. precoci) l’adeguamento automatico all’andamento dell’attesa di vita: una regola che i “nostri” lasceranno in vigore per pensioni di vecchiaia e quindi soprattutto a carico delle lavoratrici che, per la loro posizione nel mercato del lavoro caratterizzata spesso da carriere brevi e discontinue, non sono in grado di maturare un’anzianità contributiva che consenta di anticipare la quiescenza. A questo punto, il peso dei maggiori costi è destinato ad ampliarsi. Vedremo se la relazione tecnica confermerà l’adeguatezza delle coperture finanziarie previste (e peraltro ridotte).

 

La Ribollita è un piatto che deriva dalla tipica zuppa di pane raffermo e verdure che si prepara tradizionalmente in alcune zone della Toscana. In origine era un piatto povero che serviva ad utilizzare il pane dei giorni precedenti insieme ad alcune verdure che i contadini coltivavano nell’orto. La Ribollita ha seguito il percorso dei cibi come la polenta, il baccalà, la trippa, la pajata e quant’altro. Già consueti – quando ve ne era la disponibilità – sulla tavola delle famiglie povere si sono trasformati in leccornie per quelle benestanti. Ma, per rimanere nell’ambito europeo (e trascurare pertanto il cous cous e altri cibi simili), il piatto più famoso, nell’elenco di questa tipologia culinaria, è senz’alcun dubbio la Paella. La sua ricetta consiste nell’affondare in un mare di riso allo zafferano i resti – carne, pesce, pollo, verdure – della cena della sera precedente. Per quale ragione, si chiederanno gli eventuali lettori di questo articolo, ci siamo così diffusi a parlare di cibo come premessa per trarre alcune prime considerazioni sulla disciplina del reddito di cittadinanza (RdC)? Perché l’immagine della paella – questa volta caratterizzata da norme ed istituti giuridici – ci è venuta subito in mente alla lettura del Titolo I della bozza di decreto legge che dovrebbe dare l’avvio alle pensioni e al RdC. L’articolato è un puzzle sconnesso che pretende di tenere insieme – in un labirinto degli specchi – la lotta alla povertà, le buone pratiche di inclusione sociale e le politiche attive del lavoro. Basta leggere poche righe per farsi un’idea di quanto sia ambizioso il progetto di una “misura unica di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all’esclusione sociale, a garanzia del diritto al lavoro, della libera scelta del lavoro nonché a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione, alla cultura…”. Se mai il decreto diventerà operativo, dunque, ognuno avrà secondo i suoi bisogni. La normativa è tanto ampia e complessa che il lavoratore dovrà avvalersi del supporto di un commercialista o rivolgersi ad un Caf o da un Patronato (riemerge persino una sorta di social card); questi enti saranno tenuti anche a seguire meticolosamente e puntualmente le variazioni della condizione economico-sociale della famiglia presa in carico, ai fini della continuità, della quantità dell’erogazione monetaria. Ma è sulla macchina amministrativa che vengono imposti compiti irrealistici. I tempi, innanzi tutto, sono tanto stretti da sembrare inverosimili. L’Inps sarà tenuto a verificare entro cinque giorni lavorativi la sussistenza dei requisiti di coloro che hanno presentato la domanda. Entro trenta giorni dal riconoscimento del RdC sono chiamati a scendere in campo i Centri per l’impiego, i quali dovranno far sottoscrivere all’assistito e agli altri componenti della famiglia il Patto per il lavoro (col quale il soggetto si impegna ad accettare i posti che gli vengono offerti, in rapporto crescente della distanza da casa, e preliminarmente a sottoporsi a tutte le attività di formazione e di apprendimento) nonché il Patto per l’inclusione sociale, nel quale saranno indicati i compiti attinenti ad eventuali lavori socialmente utili. Anche l’assegno di ricollocazione viene riciclato nel Circo Barnum del RdC. C’è poi una certa automaticità nel proporre posti di lavoro alle diverse scadenze, fino a pretendere che la terza ed ultima offerta abbia come riferimento l’intero Paese. Bisognerebbe – per dare un esempio di effettivo cambiamento – convincere dapprima gli insegnanti, stabilizzati dalla legge sulla ‘’buona scuola’’ nell’amministrazione pubblica, a prendere possesso di quelle cattedre loro assegnate, lontano da casa, fino ad ora abbandonate a nuovi supplenti, grazie a tutti i possibili sotterfugi consentiti alle burocrazie ministeriali. Si conta nel progetto su banche dati insufficienti o persino inesistenti, su reti informative spesso scollegate; si presume che, nel mercato del lavoro, si trovi con la bacchetta magica il personale, a partire dai tutor, in grado di seguire e guidare il percorso formativo di ciascun beneficiario (altro che scuola paripatetica!). Ma l’aspetto più singolare riguarda il finanziamento. Ad ogni anno si fa il punto delle risorse erogate ai beneficiari; se risultano eccedenti si tagliano in proporzione le prestazioni. A parte il lavoraccio dal punto di vista amministrativo, sarebbe come – per restare nella metafora della Paella – togliere dai piatti messi in tavola una porzione di riso.

 

I centri per l’impiego non funzioneranno mai, le imprese non forniranno i fabbisogni per coprire i posti di lavoro vacanti. Risultato: la decrescita

Salvini ha “pasturato” il suo elettorato accusando di macelleria sociale l’art. 24 del decreto Salva Italia. Cosa dice oggi la legge sulle pensioni? Sorpresa

Il decreto-meraviglia – destinato a cambiare la storia del Paese, a restituire il diritto dei lavoratori ad andare in pensione, a cancellare la povertà e far ripartire verso un nuovo miracolo economico l’economia mediante un imponente rilancio dei consumi interni – ha segnato a lungo “il passo sul posto” (come ordinavano gli antichi professori di educazione fisica dopo aver fatto marciare per qualche minuto le scolaresche). I retroscenisti dei grandi quotidiani spiegano quotidianamente quali sono i punti controversi e i contrasti tra le due anime della maggioranza, ognuna delle quali è interessata a far svolazzare la propria bandiera anche a scapito di quella dell’alleato. Noi siamo convinti che i problemi siano più seri e che – come al solito – riguardino la noiosa questione delle coperture, perché è giunto il momento della verità. Si è fatto di tutto per rinviare il confronto tra le norme e gli stanziamenti. Ma alla fine si arriva sempre lì. E si scopre che, se si riducono le disponibilità, occorre intervenire, al ribasso, anche sulle platee interessate e sulle prestazioni promesse. Intanto, più passa il tempo e più diventa complicato utilizzare quota 100 e il reddito di cittadinanza ai fini delle elezioni europee. Su quota 100 è intervenuto di nuovo – suscitando le ire del ministro Salvini – il presidente Boeri, il quale ha ribadito che le risorse previste non saranno sufficienti. Il problema più complesso resta quello del reddito (e della pensione) di cittadinanza. Proprio nei giorni scorsi, nella sua rubrica sul Corriere della Sera e su La7, all’interno di un’inchiesta sull’abuso delle risorse destinate alla lotta alla povertà (che difficilmente finiscono in tasca dei poveri veri), Milena Gabanelli ha messo in evidenza la velleità del progetto di politica attiva (collegato all’erogazione del reddito, per quanto riguarda sia i tempi dell’entrata in vigore (il prossimo aprile), sia le strumentazioni previste, soprattutto in tema di condizionalità a cui sarà sottoposta la prestazione. Premesso che si chiederà all’Inps di esaminare e riconoscere a tambur battente il diritto all’assegno, è stupefacente la disinvoltura con cui si prevedono 4mila assunzioni (come e da parte di chi?) per i navigator (chi sono costoro?), l’organizzazione di iniziative di formazione e di riconversione professionale e la possibilità di offrire occasioni di lavoro – per di più coerenti con il profilo del soggetto interessato – in un arco temporale che verrà forse ridotto rispetto ai due anni inizialmente previsti: una disinvoltura irresponsabile, a prova del fatto che i centri per l’impiego rilasceranno, a proposito del posto di lavoro, una cambiale a babbo morto e che gli interessati non se ne lamenteranno, perché nel frattempo il reddito continuerà ad essere erogato. Basterebbe guardarsi attorno per accorgersi di come sia difficile attuare politiche attive. Nel suo recente saggio “Le riforme dimezzate”, Marco Leonardi che ha fatto parte del brain trust di Palazzo Chigi nella passata legislatura, ha spiegato le ragioni per le quali l’assegno di ricollocazione non è finora decollato, nonostante che fosse divenuto strutturale: lo scarso impegno delle agenzie del lavoro ad investire nel settore; la mancanza di informazione; la propensione dei lavoratori ad esaurire fino in fondo l’utilizzo della Cig o della Naspi, piuttosto che a mettersi in gioco nella ricerca assistita di una occupazione. Alcuni dati sono significativi. L’Aiso, l’associazione delle agenzie di outplacement, hanno fornito un dato sul numero delle ricollocazioni: 6.500 nel 2014. Immaginiamo che le cose siano migliorate da allora, ma non certamente fino a potersi confrontare con i numeri che vengono evocati dal reddito di cittadinanza. Leonardi cita un caso paradigmatico. L’Anpal, all’inizio del 2018 aveva concordato con l’amministrazione straordinaria di Alitalia, un progetto di ricollocazione per 250 lavoratori in Cig a zero ore, avvalendosi degli incentivi previsti. Poi a maggio, quando è iniziata a circolare l’ipotesi di nazionalizzazione della compagnia solo 18 cassintegrati hanno chiesto l’assegno di ricollocazione. Resta poi aperto il problema del rapporto tra lo Stato e le Regioni, titolari delle politiche attive e – per quanto riguarda quelle che hanno raggiunto i migliori risultati – in cammino verso una maggiore autonomia. Poi va sempre tenuto presente il programma Garanzia Giovani, cofinanziato dalla Ue, rivolto in particolare ad offrire ai Neet un’esperienza di lavoro. Al di là dei risultati, è bene porre l’attenzione sul momento della “presa in carico” da parte – in prevalenza – dei centri per l’impiego (oltreché delle agenzie del lavoro), perché è questo il primo passaggio che quelle stesse strutture dovranno affrontare anche per i titolari del reddito, chiamati a sottoscrivere i patti richiesti. Nell’ultimo rapporto del 2018 viene certificato che I giovani registrati al Programma nel periodo maggio 2014 - novembre 2018 sono circa un milione e 416 mila, al netto di tutte le cancellazioni di ufficio. Rispetto ai registrati, i giovani “presi in carico” da parte dei servizi competenti sono pari al 77,7%. L’80,5% di loro sono giovani con una maggiore difficoltà ad inserirsi nel mercato del lavoro. Rispetto a chi ha completato l’intervento di politica attiva, sono oltre 303 mila i giovani occupati al 30 novembre 2018, cioè il 52,4%. Si tratta in gran parte di tirocini. Ma il problema non è questo. Ci basti segnalare come la ricollocazione sia un processo complesso, che richiede esperienza e capacità d’iniziativa. E soprattutto i tempi necessari.

 

Insomma, i centri per l’impiego non funzionano e, verosimilmente, non funzioneranno mai; le imprese non forniscono e non forniranno mai ai centri per l’impiego i fabbisogni per coprire i loro posti di lavoro vacanti; in compenso tutti riceveranno il RdC, essendo illusoria qualsiasi possibilità di verifica. Il migliore dei mondi possibili per l’italico opportunismo socio-politico.

 

E qui ci fermiamo: un decreto caos irresponsabile e clientelare, produttore di assistenzialismo, lavoro nero, che avvelena i pozzi tanto del buon funzionamento del mercato del lavoro, quanto dell’equità del welfare pensionistico. Un mostro giuridico ingestibile, per di più approvato per decreto, soggetto ai cambiamenti e alle forche caudine del passaggio parlamentare. Un sarchiapone che produrrà iniquità, opportunismi, conflitti sociali e distributivi a non finire, che premierà l’evasione, in un’Italia in recessione e disperata. Speriamo almeno un po’ disillusa.

 

Grazie Salvini, grazie Di Maio. Abbiamo capito la vostra filosofia: siete contro il lavoro. Lo ritenete un male da cui fuggire il più presto possibile nel buen retiro della pensione. Meglio ancora se lo si può evitare, campando a spese dello Stato, grazie al reddito e alla pensione di cittadinanza.

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