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Non solo Fincantieri. Così gli interessi nazionali rimangono indifesi

Alberto Brambilla

Si parlerà di "nemici" francesi ma i sovranisti lasciano un varco per i capitali cinesi

E’ difficile per Francia e Italia capire che stanno giocando con la stessa casacca europea. E spesso, quando si parla di acquisizioni da una parte all’altra delle Alpi, a prevalere sono i cori da stadio della politica. La crisi economica ha fatto emergere l’esigenza da parte dei governi europei di difendere alcune industrie nazionali da aggressioni da parte di compagnie estere. E’ un derivato della debolezza continentale rispetto alla maggiore potenza finanziaria del blocco americano (in particolare nel settore bancario) e del blocco cinese (in quello industriale, logistico ed energetico).

 

Ieri la Commissione europea ha avviato una indagine sull’acquisizione dei cantieri francesi della ex Stx da parte dell’italiana Fincantieri per via di perplessità di Francia e Germania dovute, dice la Commissione, a una eccessiva concentrazione nel settore della cantieristica. Sullo sfondo c’è, fin dall’inizio delle trattative l’anno scorso, la perplessità sulla collaborazione di Fincantieri con società di stato cinesi per la costruzione di navi da crociera; questo fa temere ai francesi un trasferimento tecnologico di asset naval-militari che diventerebbero comuni in una costituenda società italo-francese. Al di là della questione specifica, è legittimo aspettarsi una nuova polemica politica in merito alla mancanza di reciprocità degli investimenti tra Francia e Italia. In questo senso, il conteggio di punti messi a segno va a favore di Parigi.

 

Secondo uno studio di Kpmg, tra il 2006 e il 2016, 185 aziende italiane sono state rilevate dai francesi per un controvalore di quasi 50 miliardi di euro. Mentre gli italiani hanno investito poco meno di 8 miliardi. E’ stato anche sulla base della rivendicazione della scarsa reciprocità, e della sensazione di una invasione straniera, che governi di centrosinistra hanno rafforzato le difese delle imprese nazionali a partire dal 2014 e a seguire. Il governo Gentiloni, con il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha approvato la cosiddetta norma “anti scorrerie” – prevede l’obbligo per una società straniera di rendere palesi le finalità di un’acquisizione, quando si supera il 5 per cento del capitale di una società italiana quotata in Borsa – proprio quando la compagnia multimedia francese Vivendi era diventata primo azionista di Telecom Italia, assumendo di fatto il controllo degli organi societari. E’ stato un adattamento al comportamento di altri paesi, Francia in particolare, dal quale è mutuato l’impianto. La Francia ha in realtà la possibilità di opporsi in modo anche più opaco facendo valere la sua sovranità, si direbbe oggi in tempi di sovranismo arrembante. Tuttavia la difesa preventiva messa a punto dal governo a guida Pd non ha avuto né l’effetto di bloccare del tutto Vivendi né quello di intimidire le società francesi dal fare “scorribande”. Vivendi aveva cominciato a trattare con l’esecutivo, cercando un compromesso, già quando l’opposizione politica si era fatta sentire in termini di moral suasion. Si può dire che “a volte basta la parola”. Vivendi ha dovuto piegarsi e rinunciare ad avere la maggioranza nel cda di Telecom, con conseguenti dimissioni dell’amministratore delegato, Amos Genish, solo dopo il “putsch” del fondo speculativo Elliott, cui la Cassa depositi e prestiti aveva dato manforte entrando con una quota minima di capitale nella compagnia telefonica privatizzata venti anni prima. Né, come si diceva, sono state evitate operazioni francesi: il 2016 è stato l’anno record con 34 transazioni nella penisola (9 miliardi sui 65 miliardi spesi dagli stranieri per alcuni gioielli del made in Italy) contro 21 italiane in Francia. E questo non è necessariamente un male, le società italiane a controllo estero sono in media più competitive e più efficienti di quelle italiane. Ma ora, con il possibile stop a Fincantieri e Stx di ieri, risentiremo il ritornello sulla mancanza di reciprocità degli investimenti e la voglia di rappresaglia.

 

E’ però passato tutto sommato inosservato il fatto che la difesa italiana da take over stranieri da parte di società extraeuropee è incompleta. Il potere di valutare ed eventualmente bloccare acquisizioni di asset finanziari e industriali con il “golden power” interessa settori strategici (difesa, sicurezza nazionale, energia, trasporti, comunicazioni) ma all’ampliamento a società ad “alto contenuto tecnologico”, previsto dal precedente governo, non è stato dato seguito dall’esecutivo M5s-Lega. Rappresentava una innovazione rispetto alle normative francesi e tedesche che non recepiscono una proposta ad hoc della Commissione europea. Dovrebbe essere completata con un decreto attuativo che però è rimasto lettera morta dopo le elezioni di marzo. E questo è un paradosso per un governo i cui esponenti si definiscono “orgogliosamente populisti” o che fanno della difesa dell’interesse nazionale una bandiera. Nell’espressione “alto contenuto tecnologico” rientrano infatti i macchinari avanzati dell’industria 4.0 che fanno gola in particolare ai cinesi. E’ noto il caso di take over della fabbrica di robot tedesca Kuka da parte della cinese Medea, la quale a due anni di distanza dall’acquisizione ha cacciato, lo scorso novembre, l’amministratore delegato, Till Ruter, per rimpiazzarlo con uno di sua fedeltà.

 

Il ministero dello Sviluppo economico guidato da Di Maio sembra peraltro operare all’inverso rispetto a una logica di protezione da ingerenze cinesi, avendo creato una task force China con il sottosegretario Michele Geraci che lavora, appunto, per attirare investimenti dal paese del Drago. Negli anni sono state comprate partecipazioni piccole ma significative in società industriali e finanziarie italiane da parte della State Administration of Foreign Exchange cinese e della People’s Bank of China (Eni, Enel, Fca, Telecom Italia, Prysmian, Mediobanca, Generali, Saipem, Terna, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banca Monte dei Paschi di Siena) e, ultimamente, gli interessi cinesi si stanno estendendo ai porti navali, a Ravenna e a Savona, con attenzione anche al porto di Trieste, e alle infrastrutture per le telecomunicazioni avanzate della rete 5G con la cinese Zte. L’Italia aveva dunque cominciato a tentare di proteggersi dallo straniero, con attenzione anche agli altri stati europei, senza dimenticare di costruire una diga verso i capitali cinesi. Tuttavia la protezione si è rivelata parziale e non del tutto efficace, come dimostra il caso di Vivendi. Mentre, per inerzia di questo governo, una breccia a favore della Cina è rimasta aperta.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.