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Produzione & opposizione

Marianna Rizzini

Come Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, è diventato capo informale del “partito del pil”

Voglio vedere che cosa fai tu domani. Non mi importa di chi è la colpa. Non mi importa chi ha fatto cosa nei governi precedenti. Così parlò (due sere fa) Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, durante una puntata di “Piazzapulita”, su La7. “Il cento per cento degli imprenditori è contro la manovra”, ha specificato il tipografo salernitano (Arti Grafiche Boccia, storica ditta creata dal nulla dal padre Orazio, uomo attorno a cui storia e leggenda concordano nella descrizione del self made man, in gioventù anche sciuscià ovvero lustrascarpe). E se lo dice Boccia, che gli imprenditori hanno un cahier de doléances lungo come lo strascico di polemiche sullo sforamento dei parametri europei, “è perché Boccia gira l’Italia da mattina a sera, anche tre città in un giorno”, racconta chi lo conosce, e “metaforicamente prende l’autobus, ascolta, ascolta e ascolta”, rispondendo più o meno a tutti quelli che lo cerchino allo stesso numero di quando aveva trent’anni (ora ne ha quasi cinquantaquattro), forse perché memore dell’insegnamento empirico ricevuto lungo il corso di Salerno, nei primi anni Novanta, quando, se eletti, come lui, a qualche presidenza di categoria, non ci si poteva certo sentire come il re del mondo: se qualcuno ti chiamava “presidente”, infatti, potevano girarsi anche in tre o in quattro o in cinque. Tutti presidenti, nessuno presidente: difficile che la vanità potesse davvero mettere radici, in quegli anni, sul terreno mutevole dell’ossequiosità.

 

L’uomo che dice a Salvini “voglio vedere che cosa fai domani”; l’uomo che dice basta al “blocco ideologico” sulla Tav

Dunque Boccia, che in Confindustria ha fatto tutta la carriera interna, “ha imparato presto a non forgiarsi del titolo”, dice un amico, ché il titolo non sempre corrisponde al consenso, e l’attuale presidente degli imprenditori se n’è forse ricordato ai tempi (2016) della corsa alla presidenza stessa, alla fine del mandato di Giorgio Squinzi, quando tutto il Nord produttivo dibatteva se puntare su di lui, il tipografo del Sud che conosceva dall’interno il corpaccione confindustriale, o su Alberto Vacchi, imprenditore emiliano stimato da Romano Prodi, dal fondatore del gruppo Brembo Alberto Bombassei, da Assolombarda ma anche, sebbene in modo più felpato, da ministri allora renziani come Giuliano Poletti. E però Boccia aveva dalla sua ex presidenti di Confindustria come Luigi Abete ed Emma Marcegaglia, oltre alle forze produttive che, dal Piemonte alla Campania, vedevano in lui un uomo di sistema ma non d’apparato: conoscitore delle dinamiche interne alla confederazione, ma non al punto da chiudersi nella torre.

     

E insomma – per legge implicita dei tempi sovranisti – succede che chi, come Boccia, vuole apparire apartitico nel senso dell’interesse nazionale, e stare a guardare se qualcuno dà una spinta al pil più che buttarsi preventivamente verso questo o verso quello, si trovi invece nella posizione di “tecnico” cui tocca in sorte, un po’ per effetto delle cose un po’ per volontà, il ruolo di opposizione ufficiosa al governo gialloverde, pur senza volere che le poltrone ballino anzitempo: Boccia è infatti anche colui che ha fatto capire quanto poco piaccia agli imprenditori l’idea che Giovanni Tria, ministro dell’Economia finora resistente alle pressioni dei due vicepremier uguali e contrari Luigi Di Maio e Matteo Salvini, abbandoni a monte il campo di battaglia sulla manovra (“dimissioni del ministro? E’ un momento delicato, non è il caso”, ha detto il presidente degli imprenditori qualche giorno fa).

   

Il discorso-manifesto di Roma e quello atlantista di Washington. E la “nostalgia del futuro” ai tempi del contratto gialloverde 

E pensare che c’è stato un momento – nei mesi postelettorali in cui ancora non si aveva certezza di poter giungere alla fine dell’incubo “chi forma un esecutivo con chi” – in cui il nome di Boccia compariva sempre nelle elucubrazioni scenaristiche e nella lista dei papabili per un cosiddetto “governo del presidente”. Di certo, intanto, c’era l’apertura di Boccia ai precedenti governi Renzi e Gentiloni, e l’appoggio di Boccia al referendum costituzionale del dicembre 2016, con votazione dei grandi associati di Confindustria all’unanimità a favore del Sì, nonostante le precedenti divisioni tra “bocciani” e “vacchiani”, ricomposte in vista di un voto referendario considerato, tra gli imprenditori, per le possibili implicazioni sulla tenuta dell’allora governo Renzi, importante quasi quanto un voto per la Brexit in Gran Bretagna. E quel giorno, visto il gradimento confindustriale alla linea del Sì, Boccia poteva ben tirare fuori la massima di Mao Tse-Tung che ricorre nei suoi discorsi: “Il cammino è tortuoso, l’avvenire è radioso” (da applicare, a monte dei risultati del referendum, sia a Renzi sia agli industriali cui erano piaciuti il Jobs Act e l’arrivo al ministero dello Sviluppo di Carlo Calenda, che ancora non aveva messo sul tavolo il Piano per l’Industria ma prometteva di farlo). Tuttavia quella del futuro radioso, poi rivelatosi meno radioso del previsto sia a livello nazionale sia a livello confindustriale (vedi crisi del Sole 24 Ore), non è l’unica massima di Mao che Boccia ami citare. Pare infatti che il presidente di Confindustria, non soltanto per motivi di famiglia (ha avuto parenti comunisti), sia un cultore della materia, al punto da cimentarsi in piccole gare di citazionismo maoista (di e su Mao) con il presidente della Regione Piemonte Sergio Chiamparino e persino con l’insospettabile presidente della Regione Liguria Giovanni Toti. Ma gli piace citare anche Totò, quando non il presidente della Repubblica Sergio Mattarella o, nei momenti di svolta, come all’insediamento al vertice di Confindustria, lo scrittore George Bernard Shaw, uno dei suoi preferiti accanto a Balzac e Goethe: “L’immaginazione è l’inizio della creazione. Le persone immaginano quello che desiderano, poi vogliono quello che immaginano e alla fine creano quello che vogliono”. E però quest’anno, in maggio, all’Assemblea di Confindustria, alla presenza dei ministri uscenti Carlo Calenda, Marianna Madia, Giuliano Poletti e Graziano Del Rio, Boccia, a parte riportare le parole del designer Bruno Munari (“complicare è facile, semplificare è difficile, la semplificazione è il segno dell’intelligenza”), visto il risultato elettorale e la curvatura populista-sovranista che di lì a poco avrebbe portato alla stipula del contratto gialloverde, ha pronunciato un discorso che presto ha preso la piega del manifesto d’opposizione, specie nelle parti sull’Europa (“non ci lamentiamo con l’Europa se non siamo presenti a tutelare i nostri interessi”), sulle pensioni (“le pensioni sono importanti, un diritto acquisito è sacrosanto. Ma non possiamo scaricarne l’onere sui giovani, già gravati dall’onere del debito pubblico”) e sulle infrastrutture (con profetici accenni al “blocco ideologico” che sarebbe risultato evidente all’indomani della caduta del ponte Morandi a Genova: “Rischiamo di perdere immediatamente centralità rimettendo in discussione scelte strategiche come Terzo Valico, Tav e Tap…quale messaggio diamo a un investitore straniero…?”). Invece due mesi fa, a Washington, premiato dalla National Italian American Foundation, è spuntato all’improvviso un Boccia atlantista (“…occorre costruire ponti di relazioni economiche per crescere insieme, per un’Italia piattaforma ideale e centrale tra Europa e Mediterraneo, aperta ad est e ad ovest in termini geoeconomici e complementare agli Stati Uniti d’America”) e un Boccia paladino dei “valori dell’Occidente”. Senza citazioni di Mao né di Totò (altro suo cavallo di battaglia), il presidente di Confindustria si è spinto infatti ai confini “del nuovo mondo dei valori, della libertà e della democrazia” che “non può che passare per i ponti dell’Italia, degli Usa e dell’Europa…in questo modo costruiremo il futuro e rispetteremo la memoria dei grandi uomini e donne dei nostri paesi…”.

  

Tipografo, figlio di padre “sciuscià”, può citare Mao come Totò e tiene a mente “la lezione del Corso di Salerno” 

Che sia Oltreoceano o a Salerno, comunque, Boccia si comporta come una persona assolutamente contraria all’idea di farsi “portavoce” (vallo a dire ai Cinque stelle, “portavoce” per contratto del cittadino “uno vale uno”), e favorevole a quella di farsi “rappresentante di interessi” e parte di quei corpi intermedi tanto vituperati in epoca di disintermediazione. Tuttavia, sia a Salerno sia in America, è inseguito non soltanto dalla suddetta lezione antivanterie appresa lungo il corso della città (tutti presidenti, nessuno presidente), ma anche dal sense of humour di sua moglie, che contribuisce a tenere sempre basso l’ego del marito, preso allegramente in giro fin da quando andava in moto su e giù per le curve della Costiera.

   

Quando era appoggiato da Abete (e il suo avversario Vacchi da alcuni ministri renziani). E quando ha detto Sì al referendum

Poi c’è la storia dell’oggi, qualche giorno fa: è il 3 dicembre, siamo a Torino, giorno degli Stati generali delle categorie. Gli imprenditori e i rappresentanti degli artigiani e dei commercianti si riuniscono alle Officine delle Grandi Riparazioni per dire “basta” ai mugugni No Tav (anche governativi). Boccia ricorda che rinunciando alla Tav c’è “un miliardo da restituire”, e che può benissimo pagare “chi non la vuole”. Soprattutto, gli imprenditori chiedono l’impegno del governo sulle infrastrutture e sulla crescita. Risponde a distanza il vicepremier Salvini, e la risposta è del genere “massima ritorsione verbale”: parlate voi che siete stati zitti anni mentre gli imprenditori venivano massacrati, lasciatemi lavorare. Il giorno dopo Salvini edulcora: invito Boccia a prendere un caffè. “Non basta, stavolta ce ne vorrebbero dodici”, è la frase ammazza-battuta del presidente degli imprenditori, colui per il quale, a questo punto, “soltanto un confronto vero e nelle sedi deputate” potrebbe servire a spegnere qualche preoccupazione presso il mondo produttivo, in subbuglio dal nord-est al nord-ovest, passando per la Genova del ponte da ricostruire. Che il confronto non sia astratto, chiede Boccia; che provenga non “dal ministro dell’Interno ma dal segretario della Lega”: “…Bisogna pensare anche alle ragioni dello sviluppo e non solo alle ragioni del consenso legate ai tre grandi fini che il governo si è dato, ovvero pensioni, flat tax per gli autonomi e reddito di cittadinanza”. Come dire: Salvini non faccia un bluff in vista delle elezioni europee, tanto gli imprenditori l’hanno sgamato (anche perché spesso in passato l’hanno votato). E ogni volta che qualcuno nomina la procedura d’infrazione, nei giorni in cui sembra che tra Roma e Bruxelles si stia per arrivare al limite del baratro, Boccia ribadisce: “Quattro miliardi per evitarla? Salvini e Di Maio rinuncino a quattro miliardi a testa”.

   

Fatto sta che, in giorni di riorganizzazione dell’opposizione, sorvolando sulla fase critica pre-congresso del Pd, la cosiddetta resistenza informale del Pil (piccola e media impresa più ampi stralci di sindacato) si coagula attorno alle parole del Vincenzo tipografo figlio di scugnizzo, così a Salerno veniva chiamato suo padre Orazio, cresciuto in orfanotrofio ma sempre in orfanotrofio venuto per caso in contatto con gente capace di insegnargli il mestiere che poi l’ha portato alla creazione dell’azienda. E forse è da quel passato di famiglia che Boccia ha estratto l’idea guida del suo programma, nel giorno del 2016 in cui si è insediato al vertice degli industriali: “La nostalgia di futuro ci guiderà ogni giorno”. E vai a pensare che il futuro sarebbe stato, nel 2018, quello del contratto Lega-Cinque stelle.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.