Dis-integrare l'Europa adesso è possibile
La manovra 2,4 è un fatto che può produrre un elemento di graduale e concordata dis-integrazione dell’assetto europeo. Lo dicono i populisti ma lo affermano pure i guru della City e di Wall Street. E se l’Italia avesse il coltello dalla parte del manico?
Avanziamo un’ipotesi. Parigi e Berlino non sono in grado di produrre fatti di rilievo che modifichino l’assetto europeo nel senso di una maggiore integrazione e autorità comune condivisa. La manovra del governo italiano, per quanto proceda per ora nell’isolamento e sia sottoposta a un esame normativo severo della Commissione, risulterebbe essa sì il “fatto” capace di produrre un elemento di graduale e magari concordata dis-integrazione. Alla unilateralità e violenza simbolica del blocco dei porti deciso dal Truce non c’è stata risposta altro che timida e caso per caso. Lo stesso potrebbe accadere per la unilateralità e protervia simbolica del governo in deficit deciso da Roma, ma con conseguenze ben più pesanti per l’intera area dell’euro. La sola Commissione, per di più in tempi elettorali complicati, non sembra in grado di reggere senza un ambiguo compromesso, e la prospettiva di una crisi di mercato delle banche e del sistema di finanza pubblica italiani si rovescerebbe in un caos comune che nessuno auspica.
Lexit sta per Left-exit. Via dall’unione e dall’euro, ma su basi di sinistra. C’è anche un padre nobile di un’eventuale Europa post liberista. I lexiteers citano un Keynes del 1936, sorprendente nonostante si tratti di un altro mondo e in certo senso di un altro Keynes, che però proprio in quegli anni pubblicava e ristampava la sua Teoria generale: “Lasciamo che le merci siano prodotte in casa ogniqualvolta è possibile e conveniente, e sopra tutto lasciamo che la finanza sia principalmente nazionale”. Cito da una recensione (Adam Tooze), nella London Review of Books (13 settembre), di una nuova biografia di Keynes scritta da Geoff Mann. Qui non si parla di Varoufakis o di Mélenchon, e nemmeno dello staff di economisti della Casa Bianca o della recente manovra del governo italiano in urto con le regole della finanza sovra nazionale europea e con le reazioni diffidenti dei mercati internazionali, qui si parla di uno dei creatori del mondo moderno, John Maynard Keynes, un liberale riformista che si opponeva ai liberisti e fu architetto dell’interventismo statale allo scopo di rendere il capitalismo compatibile con la democrazia.
Ora pare che Keynes, dopo l’eclissi dovuta alla rivoluzione neoliberista e globalizzatrice, pro mercato, degli ultimi decenni del Novecento, dopo Thatcher e Reagan, sia stato vendicato dalla crisi del 2008, quando – come racconta Tooze – Ben Bernanke disse, precisamente il 18 settembre di quell’anno: “Se non facciamo questo, potremmo non avere più un’economia a partire da lunedì”. “Questo” era il bail out, il salvataggio, del sistema bancario americano e mondiale da parte di Casa Bianca e Congresso e Federal Reserve, i poteri federali, pubblici, di lì in avanti impegnati in uno stimolo keynesiano come non se ne erano probabilmente mai visti. Si tratterà dunque di stabilire la compatibilità del capitalismo e della democrazia, come voleva il maestro, ma stavolta di una democrazia illiberale. Questi riferimenti hanno una spiegazione non erudita, non sia mai, e non cerebrale, non sia mai.
Voglio dire che l’idea europeista è politica, discende dalla vittoria alleata nella Seconda guerra mondiale e ne è il prolungamento, da Adenauer e Schuman e Monnet fino allo scambio Maastricht e euro contro la riunificazione tedesca (fine della Guerra fredda e fine della storia, almeno per Fukuyama), Mitterrand e Kohl. Il contenuto economico e sociale di questa idea politica è o si è progressivamente definito, su basi sempre più chiare, come un assetto di tipo liberale, l’opposto della citazione da Keynes del 1936: le merci non sono homespun, fatte in casa, alla fine nemmeno quel particolare tipo di merce che è la moneta, e la finanza è globale, interdipendente, non può essere nazionale. Ora, se Keynes è stato vendicato, l’Europa liberista è nei guai. Altro che Varoufakis, Mélenchon e Toninelli. E perfino le manovre e i comizi di un Truce si riflettono nello specchio di un passaggio più serio e più grande.
Noi pensiamo, ed è parzialmente vero, che la manovra del primo vero governo nazionalpopulista europeo, quello italiano, è un pasticcio insostenibile dovuto alla caccia inesausta al consenso, alla demagogia, al rabbioso revanscismo dei dimenticati della politica una volta fattisi maggioranza in nome dei dimenticati della società. Ma è vero anche che il giornale del Dow Jones, il Wall Street Journal, da sempre ostile ai bilanci tecnocraticamente sorvegliati dall’élite di Bruxelles, scrive a tutte lettere: nella manovra c’è un abbozzo di flat tax, ottima premessa e promessa, e poi ci sono molte spese improduttive e clientelari, i burocrati europei non sono capaci di distinguere e di spingere per stimoli di mercato alla crescita, fanno il lavoro di guardiani di compatibilità fiscali astratte e perniciose, fuck. E il giornale della City, il Financial Times, avverte nello scontro tra Italia e Ue un sapore da crisi greca, perché un bilancio sballato fa correre a tutti il rischio della contaminazione, ma sostiene:
(1) che l’Italia non vive al di sopra dei suoi mezzi, avendo un avanzo primario e una buona bilancia commerciale; e che (2) il debito è per la maggior parte interno, quindi la polemica sulla sua gestione o addirittura ristrutturazione è meno efficace di quanto lo fosse quando Atene era indebitata direttamente con i partner; infine (3) che l’Italia è abbastanza forte per minacciare credibilmente l’uscita dall’euro e dall’Unione, non la si governa come l’economia greca che le è inferiore di dieci volte; e (4) prima di castigarla per la sua superbia fiscale bisognerebbe che i meccanismi di salvataggio, solidarietà e garanzia del resto del sistema sovranazionale siano attivati o attivabili, altrimenti la contaminazione della crisi bancaria, che è il vero problema dietro alla gestione del debito pubblico italiano, non risparmierebbe nessuno (opinione di Isabelle Mateos y Lago, ex Fmi).
Insomma, violando le regole il governo populista non causa di per sé una crisi nazionale e di mercato, sempre possibile e estremamente pericolosa per l’economia italiana delle imprese e delle banche e delle famiglie e dei giovani, ma postula una nuova regola di dis-integrazione del sistema euro; e comunque una tempesta di mercato, a differenza che nel caso greco, investirebbe in pieno, di concerto con la guerra trumpiana dei dazi, con le minacce al commercio e all’esportazione di beni su scala globale, con le conseguenze eventuali di una hard Brexit, l’Unione europea, forzando la ricerca di un nuovo compromesso, di nuovi Trattati, di un nuovo assetto e forse di una nuova realtà monetaria che sancirebbe il fallimento dell’euro come strumento di convergenza virtuosa delle economie di mercato. La Grecia è stata per così dire rimessa in ordine, l’Italia ha la forza e la fragilità necessarie per provocare un grande disordine europeo. Lo affermano con discreto cinismo i guru di Wall Street e della City. Lo si suggerisce perfino nel nome di Keynes e della sua vendetta postuma.
Divergenze Parallele