A Calais, una protesta del 2016 contro i danni causati dai migranti che tentavano di raggiungere il Regno Unito (foto LaPresse)

Quando i britannici erano spaventati dall'immigrazione

Cristina Marconi

Emozioni vs fatti. Al tempo della Brexit nel Regno Unito c’era allarme invasione, adesso gli inglesi l’hanno scordato

Londra. Per ogni paese del mondo c’è sempre qualcosa da imparare dalla Brexit. Alla vigilia del referendum del 2016, l’elettore britannico medio era terrorizzato da un’immigrazione fuori controllo. Con qualche ragione, forse sobillato da politici che facevano promesse su una riduzione degli arrivi impossibile da raggiungere, sicuramente spettatore di un paese che stava cambiando sotto i suoi occhi. Poi, tutto a un tratto, il miracolo: è bastato che vincesse il Leave al referendum del 23 giugno perché il problema si risolvesse da solo, ma unicamente nella testa degli inglesi, visto che i flussi, dopo una riduzione iniziale, sono ripresi alla grande. E ora chi glielo va a dire, ai rappresentanti del famigerato 52 per cento? Non è necessario dare loro questo dolore, poiché nella loro agenda politica mentale hanno già voltato pagina: oggi soltanto il 20 per cento ritiene l’immigrazione una priorità, secondo i dati di Ipsos Mori citati da Matt Chorley nella sua pluripremiata rubrica Red Box sul Times. Come a dire che ai politici basta lanciare impressioni in aria e sperare che attecchiscano, che la gente le processi mentalmente in quella maniera speciale che finisce con il trasformarle in fatti: chissà che il trucco non funzioni anche con la fine dell’austerità che la premier Theresa May ha promesso e che il suo cancelliere Philip Hammond ha imbastito nella recente manovra, minando magari le prospettive future del Labour.

 

“Se l’austerità è negli occhi di chi la guarda e il governo dice che è finita, alcune persone vorranno crederci anche loro”, spiega Chorley neppure troppo ironico: “Ci aspettano bei tempi, grazie al cielo”. In Italia anche, dicono.

 

La Brexit è la madre di ogni abbaglio politico, essendo stata stata vinta grazie a percezioni, illusioni, emozioni e manipolazione dei sentimenti, al punto che ogni tanto, incontrando un antieuropeista di concetto – e sì che qualcuno ce n’è – si rimane quasi sorpresi dal fatto che ci siano anche degli argomenti più solidi dietro all’idea di ‘riprendersi il controllo’. Inoltre l’uscita del Regno Unito dalla Ue ha una sua finitezza temporale che la rende un case study perfetto su cosa succede una volta che si raccontano agli elettori favole, come ad esempio quella secondo cui 350 milioni di sterline a settimana risparmiate con l’uscita dall’Ue andranno a finanziare il servizio sanitario nazionale. Una storia vecchia e ormai completamente screditata, penserà qualcuno, e invece no. La celeberrima balla è ancora creduta vera dal 42 per cento di coloro che l’hanno vista dipinta sugli autobus rossi o ne hanno sentito parlare, ossia i due terzi dei britannici. A riprova che il fact-checking non serve, non sempre.

 

Ultimamente anche un regista come Mike Leigh, uno che nei confronti delle classi popolari ha sicuramente dimostrato più devozione di Jacob Rees-Mogg o Boris Johnson, si è fatto due domande: “Che ruolo ha svolto la verità nella scelta della gente di votare per la Brexit?”. Mica per altro, ma se pure i contadini della Cornovaglia che ricevono fondi europei si sono fatti prendere dalla febbre euroscettica cosa ce ne facciamo dei fatti, della verità, delle cose dimostrabili e dimostrate in due anni di sforzi titanici da parte di istituzioni come la Bbc per stabilire cosa sia granitico e cosa invece meriti di fluttuare nel mondo delle opinioni o nel sottomondo, assai affollato, delle panzane? Se è successo nella compassata Inghilterra, con il suo servizio pubblico strepitoso tutto preso a spiegare e correggere, come farà il resto del mondo? Per carità, è una delle prerogative della mente umana quella di dare importanza al contesto, lasciarsi ingannare, incantare, e menomale che siamo così, ma il fatto che neppure i dati facciano cambiare opinione alla gente è desolante: il ragionamento decisamente non è lo strumento politico du jour.

 

“E’ ingenuo pensare che se solo potessimo correggere un vuoto di conoscenza cambieremmo punto di vista, poiché questo nega i fattori emotivi e identitari dietro alla nostra percezione della realtà”, spiega Bobby Duffy, direttore della ricerca sociale di Ipsos Mori e autore di “I pericoli della percezione. Perché abbiamo torto quasi su tutto”. Non pensiamo che insegnando i fatti cambi qualcosa, suvvia. Non diventiamo noi gli stupidi, lo sappiamo benissimo che le storie piacciono più delle statistiche.

 

Le illusioni cognitive

Siccome di soluzioni immediate non ce ne sono, perché non prendere sul serio la proposta di una famosa neuroscienziata spagnola, Susana Martínez-Conde, studiosa di illusioni cognitive a New York e grande sostenitrice del fatto che dal mondo della magia e dell’illusionismo possono venire delle risposte nel mondo delle fake news, e non solo l’ispirazione per misure politiche campate in aria? “Lo studio del meccanismo causale della magia è essenziale per contrastare la manipolazione politica”, ha spiegato al País. “Dobbiamo imparare ad allenarci per resistere a queste influenze: acquisire consapevolezza del fatto che possiamo essere manipolati è fondamentale per evitarlo”. In buona sostanza, mettere da parte un po’ di tempo per insegnare ai bambini a scuola che non è tutto oro quello che luccica.

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