Gli impianti di Bagnoli in una foto dei primi anni Duemila (foto Imagoeconomica)

Bagnoli, l'Ilva che fu

Stefano Cingolani

C’era una volta “Ferropoli”, che doveva segnare il grande riscatto di Napoli e adesso è una terra desolata La mano dello stato, la crisi, i fantasiosi progetti di riconversione. Una storia che parla anche a Taranto

“Vendo Bagnoli, chi la vuol comprare / colline verdi mare blu / avanti chi offre di più” (Edoardo Bennato)

 

‘Buonocore, arrivano i cinesi’. ‘Ma è un bel po’ che si dice’. ‘D’accordo, ma questa volta arrivano davvero. Pare che saranno qui in ottobre’. Sospirò l’ingegnere. Correva l’anno 1994. Chi lo scorderà più quel sospiro?”. Ermanno Rea, nel romanzo-verità “La dismissione”, racconta il tramonto di un’epoca: finisce l’èra di “Ferropoli” che doveva segnare il grande riscatto di Napoli, l’antidoto contro tutte le sue secolari malattie. E non comincia un bel nulla. Quell’area un tempo fumigante, nera di carbon coke, riscaldata dal fuoco dell’Ade (il lago Averno dista pochi chilometri), è oggi un deserto, tra archeologia industriale e fantasiosi progetti: una città della scienza, una città del turismo, una Silicon Valley affacciata sul golfo più bello del mondo, un centro benessere che sfrutta il vulcanismo dell’area e riporta Bagnoli alle origini romane, quando si chiamava appunto Balneolis perché ospitava centri termali, un parco giochi come quello che Beppe Grillo propone anche per Taranto, una volta chiusa l’Ilva. Propositi, proposte e programmi: si sono via via impantanati un acquario, un’area concerti, una voliera per le farfalle, campi di calcio, tennis, basket e piscine, massoterapia, parcheggi, un porto turistico, studi cinematografici e televisivi, case popolari, residenze vip, alberghi, archeologia industriali. Qualcuno ci ha scaricato sacchetti di spazzatura, quando non si sapeva più dove metterli. Qualcun altro immaginava trivellazioni per estrarre gas e calore dai vulcani flegrei.

 

Nel 2002, il comune di Napoli aveva creato la Bagnolifutura spa, con la partecipazione minoritaria del comune e della provincia. Era il grande progetto di Rosa Russo Jervolino, sindaco di Napoli e di Antonio Bassolino, presidente della Regione, per una sinistra moderna che dalle ceneri della vecchia cultura industriale e operaia creava l’Italia ad alta tecnologia. Fiore all’occhiello doveva essere proprio la Città della scienza, ideata e organizzata da Vittorio Silvestrini, fisico bolzanino trapiantato a Napoli, eminenza scientifica del Pci e dei suoi derivati politici successivi. Doveva sorgere la palestra dedicata alla fisica, il planetario, l’officina dei piccoli, le mostre temporanee e accanto l’incubatrice di imprese innovative. Ritardi, contrasti, incertezze; poi la crisi del 2008 ha dato un colpo di maglio alle grandi speranze.

 

Nel 2002 il comune di Napoli aveva creato la Bagnolifutura spa. Ritardi, incertezze e poi la crisi del 2008: un colpo alle grandi speranze

Il 27 luglio 2012 viene inaugurata la porta del Parco, ingresso alla struttura, splendida cattedrale del nulla, una finzione scenica perché il nastro sarà tagliato almeno un paio di volte, mentre i 65 milioni di euro per portare avanti la bonifica svaniscono. Il governo Monti sta tirando la cinghia, l’Unione europea chiude i cordoni della borsa, di investitori privati nemmeno l’ombra. Finché, il 4 marzo 2013, giorno di chiusura al pubblico, un vasto incendio doloso distrugge quattro dei sei capannoni della Città della scienza. Unico indagato è uno dei due custodi di turno, Paolo Cammarota, condannato nel 2016 in primo grado a sei anni di reclusione. Camorra, vendette, ricatti, terrorismo politico? Chissà. Si salvano dalla distruzione il Centro congressi, l’Incubatore, il Teatro Galilei 104 gestito dalla cooperativa “Le Nuvole”, il capannone del ristorante e l’edificio che ospita alcuni uffici. Migliaia di persone si riuniscono a Napoli in un flash mob il giorno 10 marzo. Carlo Rubbia lancia un comitato di sostegno per la ricostruzione della Città della scienza al quale aderiscono intellettuali tra cui Claudio Abbado, Renzo Piano, David Gross e alcuni fisici del Cern. Il 7 novembre 2013 il museo riapre in capannoni temporanei con la mostra Futuro Remoto (tema il cervello) e con una esibizione di cuccioli ed embrioni dei dinosauri proveniente dall’Australia. Il 14 agosto 2014 l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, dopo scambi di improperi a mezzo stampa e social media, firmano un accordo di programma per la ricostruzione sullo stesso sito dell’edificio distrutto, arretrando di alcuni metri per consentire il ripristino della linea di costa. La Fondazione indice una gara internazionale di progettazione, vinta nel luglio 2015 dagli architetti Valerio Ciotola e Andrea Guazzieri all’interno di una compagine di otto imprese (capogruppo Stige & Partner), su un totale di 98 progetti ammessi. Ma l’iter si blocca perché entra in ballo Invitalia, l’agenzia del ministero dell’Economia nata per finanziare le start-up, e decide di elaborare un nuovo progetto che sposta il nuovo centro verso il monte, in un’area ancora da bonificare. Nonostante l’opposizione della Fondazione, che teme un allungamento dei tempi della ricostruzione, la giunta De Magistris impone il superamento dell’accordo di programma del 2014. E si ricomincia.

 

Chiuso “l’impero di pura materia e pura potenza” cantato da Guido Ceronetti, rinviati i progetti futuristici, si levano inni alla trasformazione dell’ “ecomostro” in “rinomata meta turistica”. L’ultima versione risale a un anno fa, con il progetto varato dalla trojka governo, governatore della Campania e sindaco di Napoli (al secolo Claudio De Vincenti, allora ministro per il Mezzogiorno, Vincenzo De Luca e Luigi De Magistris per una volta insieme) che prevede la costruzione di binari del treno interrati con una stazione affacciata sul mare, sette chilometri di piste ciclabili e una spiaggia pubblica lunga un paio di chilometri. Viene demolito anche il circolo Ilva, una delle ultime testimonianze del passato industriale della zona, per far posto ad alberghi affacciati sul golfo di Napoli. Tempo per la metamorfosi, sette anni. Secondo l’accordo i lavori termineranno entro il 2024, cioè 32 anni dopo la chiusura di Bagnoli, 22 anni dopo Bagnolifutura, 11 anni dopo i tizzoni dello “science center”. La ministra per il Sud Barbara Lezzi, caschetto in testa, il 26 luglio scorso ha fatto la sua prima ricognizione in loco insieme all’allora commissario Salvo Nastasi e a Domenico Arcuti, amministratore delegato di Invitalia. L’esponente del governo (fino a prova contraria) ha confermato che si tratta di “una priorità” e ha annunciato una “cabina di regia”. C’è da augurarle tutta la fortuna mancata ai suoi molti predecessori, perché il destino di Bagnoli ha macerato generazioni di politici, boiardi di stato, manager privati, futurologi, rossi, verdi, gialli. E altre ne consumerà, perché verranno nuovi caschetti, nuove ministre, nuovi progetti, nuovi commissari. Nastasi si è dimesso nei giorni scorsi e l’asse De Magistris-Fico punta su Francesco Floro Flores, ingegnere informatico e imprenditore che gestisce già lo zoo e l’Arena flegrea.

 

Il sogno industriale era durato un secolo. E non fu solo sogno, a essere sinceri, almeno dall’inizio del Novecento fino agli anni 70, prima che l’Italia imboccasse la sua strada in discesa. A Bagnoli la prima fabbrica, una vetreria, risale al 1853: i Borbone erano reazionari ma non così arretrati come li si dipinge, basti ricordare che la Napoli-Portici fu la prima ferrovia italiana. Ma il nucleo industriale napoletano è frutto della grande modernizzazione giolittiana. Nel 1910 s’inaugurò l’Ilva con 2.000 operai, che lavorava con il ciclo integrato: via mare arrivavano le materie prime, e via mare veniva spedito l’acciaio. La Grande guerra stressò al massimo la produzione e la crisi postbellica fece chiudere l’impianto fino al 1924. Tre anni dopo nacque un vero polo produttivo che ruotava attorno all’acciaio, al cemento e all’amianto grazie alla genovese Eternit. Poco più in là, a Pomigliano d’Arco, nel 1938 si cominciò a costruire aerei. Le bombe anglo-americane prima, i tedeschi in ritirata poi, rasero tutto al suolo. Fu il capitalismo di stato, nel Dopoguerra, a rinverdire i vecchi allori. Finché le due crisi petrolifere diedero il colpo di grazia all’industria pesante.

 

Il rogo alla Città della scienza. Rinviati i progetti futuristici, si levano inni alla trasformazione dell’“ecomostro” in meta turistica

In verità, era dal 1969 che lo stabilimento siderurgico chiudeva l’esercizio con bilanci sempre peggiori, fino a una perdita record nel 1977: 127 miliardi di lire, 16 milioni per ogni dipendente. Non solo. “Proprio in quell’anno – scrive Rea – furono assunte svariate centinaia di disperati: ex detenuti, picchiatori fascisti, piccoli contrabbandieri, settemila iscritti al listone unico dei disoccupati organizzati”. La drastica ristrutturazione servì anche per un “risanamento sociale”, perché l’Ilva era ridotta “una sputacchiera”, racconta Rea per bocca del suo protagonista, l’operaio Vincenzo Buonocore. “Camorristi, faccendieri, ex detenuti, feccia, scansafatiche furono costretti a uscire di scena… La nostra fu una ristrutturazione contro tutto e tutti”, dopo la quale ”ci collocammo tra i più bravi al mondo, addirittura in materia di promise, parola che comunque la si voglia tradurre significò una cosa soltanto: che Napoli non menava per il naso i propri clienti nel senso che consegnava con assoluta puntualità le merci ordinate”.

 

Il Comitato tecnico consultivo istituito con il compito di analizzare le aree di perdita esistenti all’interno del gruppo Iri, nel Rapporto conclusivo per l’impianto di Bagnoli, aveva affermato che i risultati economici negativi registrati a partire dal 1969 erano “imputabili a deficienze impiantistiche e produttive non eliminabili per carenza di spazio”, giungendo alla conclusione che la localizzazione era “inadatta” all’esercizio di un impianto siderurgico moderno. Il successivo rapporto del Comitato per la siderurgia, presieduto da Pietro Armani, nel 1978 prevedeva per Bagnoli “la progressiva chiusura” in quanto le “razionalizzazioni e ristrutturazioni che si impongono non possono essere realizzate con la normativa urbanistica vigente, nonostante le modifiche introdotte”. Per consentire il piano siderurgico nazionale, che stanziava circa mille miliardi di lire, il consiglio comunale adottò una nuova variante eliminando le prescrizioni sull’intera area industriale occidentale e consentendo “la realizzazione di opere per l’ammodernamento, integrazione e ampliamento degli impianti e delle loro attività complementari”.

 

Nel 1910 s’inaugurò l’Ilva, che lavorava con il ciclo integrato: via mare arrivavano le materie prime, e via mare veniva spedito l’acciaio

Nel 1981, il visconte belga Etienne D’Avignon partorì un piano che prevedeva un drastico taglio della capacità produttiva in Europa: troppo acciaio e di bassa qualità. Prima vittima l’Italia, la cui attività era concentrata nei prodotti di base. Il ministro delle Partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis, annunciò che bisognava chiudere l’altoforno di Bagnoli. Al suo posto sarebbe nato un laminatoio. Costò 800 miliardi di lire ai contribuenti italiani, poi verrà ceduto agli indiani per 30 miliardi. Nel 1987 sia il vecchio management sia il nuovo, cioè Giovanni Gambardella e Mario Lupo, ribadirono che il siderurgico andava chiuso a ogni costo. Il “piano di risanamento” venne discusso con i sindacati, i quali fecero aggiungere una postilla che lasciava una sia pur flebile prospettiva di rinvio. Portato a Bruxelles, ne uscì la decisione di smantellare entro il giugno 1989. Senza postille. E anche allora la colpa venne gettata sull’Europa.

 

Al piano siderurgico europeo l’Italia arrivò impreparata, e, come d’abitudine, cercò di contrattare delle scappatoie, accordi flessibili, rinvii, ripensamenti, promettendo in patria quello che a Bruxelles non sarebbero mai riusciti ad ottenere. L’Italsider, persino a Taranto con l’impianto più grande e produttivo d’Europa, non poteva più andare avanti senza che il governo ogni anno rifinanziasse i debiti. La privatizzazione diventava inevitabile e salutare. Coincisa con il crollo della Prima Repubblica, segnò, invece, il ridimensionamento dell’Italia come potenza siderurgica europea. Cosa che in Francia è successa dieci dopo e in Germania non accade affatto, perché le acciaierie tedesche si sono spostate più in alto nella scala del valore e della tecnologia. Meglio meno, ma meglio.

 

Dal 1969 bilanci sempre peggiori, fino alla perdita record del ’77. Il piano siderurgico europeo, la chiusura, il crollo dell’occupazione

La caduta complessiva di posti di lavoro nell’area di Bagnoli è stata particolarmente forte. Basta ricordare che nel 1973, l’anno di massima espansione, l’Italsider occupava 7.698 unità, la Cementir, non considerata oggi dimessa ma temporaneamente inattiva per ragioni di mercato, 327, l’Eternit 604, la ex Federconsorzi 165, per un totale di 8.794 dipendenti, senza contare gli occupati dell’indotto. Ma non è solo una questione di quantità. “Noi amavamo Bagnoli – sostiene Buonocore – perché incarnava ai nostri occhi una salutare contro-cartolina della città. L’amavamo perché introduceva in una città inquinata, la Napoli della guerra fredda, dell’abusivismo selvaggio, del contrabbando, valori inusuali: la solidarietà, l’orgoglio di chi si guadagna la vita, l’etica del lavoro, il senso della legalità…”.

 

Quelle di Ermanno Rea non sono nostalgie da vecchio operaista, anche perché la storia di Bagnoli è più che attuale, parla a ciascuno noi, e parla soprattutto a Taranto. “La dismissione” insinua che agissero dietro le quinte interessi speculativi, l’area faceva gola. Dietrologia romanzesca forse. Poi si è visto che è rimasta una terra desolata. Anche nel caso del centro siderurgico pugliese, non sono in ballo soltanto posti di lavoro e salari (per quanto importanti), ma è in discussione un modello sociale con i suoi valori. A quarant’anni dalla pubblicazione de “La chiave a stella” di Primo Levi, parlare di lavoro in chiave etica sembra quanti mai inattuale. Il rifiuto dell’industria s’identifica ormai con il rifiuto del lavoro tout court, con l’idea di una società dove “travagliare” è una condanna da lasciare alle macchine mentre gli uomini si dedicano alla caccia, alla pesca, al divertimento, assistiti da uno stato che protegge il tempo libero, dalla culla alla tomba. E’ questa la posta in gioco, non “un nuovo e migliore equilibrio tra ambiente e sviluppo”, come si vuol far credere. Se davvero si trattasse di scegliere il bene maggiore (suona meglio del male minore) si potrebbero trovare soluzioni razionali. Invece, viene agitata l’ideologia della decrescita e dalla ciminiere dell’Ilva esce solo fumo da gettare negli occhi. Intanto, stanno finendo gli ultimi spiccioli, Taranto lavora a metà capacità produttiva e importiamo acciaio dalla Germania. Il paese di balocchi è già qui, e “Lucignolo” Di Maio guida la corsa degli asinelli.

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