Antonio Bassolino (foto LaPresse)

Un magnifico mammut

Salvatore Merlo

Diciotto processi e diciotto assoluzioni non gli hanno tolto la passione politica. Bassolino si racconta, tra idee e dolori

Non si lamenta. Non recrimina. Però, ogni tanto, lascia che la stanchezza dei tanti anni gli scorra via come pioggia sui vetri. “Diciotto processi e diciotto assoluzioni. Avevo perso il conto”, dice nel tono astratto di uno che ragiona per i fatti suoi. “Poi qualche giorno fa, dopo l’ultima assoluzione, i miei avvocati mi hanno portato il conteggio finale”, aggiunge. “E all’inizio mi ha fatto piacere. Per me. E per il mio mondo. Per la mia città. E pure per il paese, avendo io ricoperto ruoli politici e istituzionali, anche al governo. Però, oltre questo comprensibile sentimento, subito è arrivata una forte malinconia, una tristezza sottopelle, strisciante, che nelle prime ore sopravanzava. Tanto che mia moglie a un certo punto mi ha detto: ‘Ora sorridi un po’, Antonio’. Aveva intuito la tempesta di stati d’animo contraddittori che mi attraversava”.

 

“In tanti passaggi, in questi anni, mi ha fatto male il silenzio pubblico del mio mondo. Il silenzio della sinistra. Sarebbe bastato poco”

Ma questi sentimenti tempestosi hanno su di lui lo stesso effetto dell’alcol, che non sempre toglie la lucidità, ma a volte la moltiplica. I suoi malumori e malinconie non lo fanno sragionare, anzi. Così, alla fine, quel computo così simmetrico, quei diciotto processi e quelle diciotto assoluzioni – “e mai una sola critica da parte mia nei confronti della magistratura” – alla fine sono diventati per lui un preciso combinarsi di pezzi e di tessere che formano all’ultimo istante un quadro intellegibile. “La malinconia mi viene per il tempo”, sospira. “Il tempo che è passato. Perduto. Più di dieci anni”, dice. E subito subentra un precipitoso silenzio.

  

“Un tempo così lungo è un problema serio, centrale, non solo per la mia vicenda. Tempi lunghi, tempi lunghissimi, danneggiano gli innocenti e favoriscono i colpevoli”, dice. “Ecco, la certezza dei tempi. Questo è il principale argomento di cui si dovrebbe discutere in materia di giustizia”. Parla senza rabbia, con un’espressione dolce e bassa. “In tanti passaggi, in questi anni, mi ha fatto male il silenzio pubblico del mio mondo. Il silenzio della sinistra. Non perché mi aspettassi, o chiedessi chissà che. Ma perché mi aspettavo per me, e per loro, che si dicessero due cose. La prima, senza dubbio: ‘Fiducia nella giustizia’. E subito dopo – dopo, eh – ‘Fiducia anche in Antonio Bassolino’. Questo non sono riusciti a dirlo. Malgrado ci conoscessimo da una vita”.

  

Walter Veltroni, Pier Luigi Bersani… “Gli chiedano scusa”, disse Massimo D’Alema nel 2013, nel giorno della prima assoluzione. “Non voglio parlare di singoli”, soffia Bassolino, mentre rifugge dalla cordialità pettegola dei particolari. “Parlo di uno sbagliato silenzio pubblico”, precisa. “Non essendo state dette quelle parole di solidarietà quando andavano pronunciate, nei momenti più difficili, poi non sono stati più capaci di farlo nemmeno durante le assoluzioni. Il silenzio sembrava la strada più facile. E invece era la strada più sbagliata”.

  

Trattato alla stregua dell’insalata di Fukushima, una cosa da decontaminare come il latte e le carote, da isolare, mettere in quarantena, depositare in barili stagni sul fondo del mare. O che i venti lo disperdano, lo portino lontano da noi, verso terre remote. Colpe politiche se ne attribuisce Bassolino? “Certo”, risponde. “Me le assumo tutte. Ma sulla questione dei rifiuti, la sentenza che mi ha riguardato è stata politicamente importante. Con la lunghezza dei tempi, i reati ipotizzati dai pubblici ministeri erano tutti andati in prescrizione. Fui rinviato a giudizio nel 2008. Il collegio giudicante avrebbe anche potuto prendere atto della prescrizione avvenuta. E basta. Invece hanno fatto una sentenza di merito. Di grande valore civile. Perché questa sentenza dà conto in tante pagine di tutto quello che si è mosso per costruire quel termovalorizzatore di Acerra, che da quando è stato costruito è la più grande risorsa del ciclo dei rifiuti in Campania. La verità è che queste vicende giudiziarie hanno un effetto pubblico anche in dipendenza da fatti che vanno aldilà dei meccanismi giudiziari”. Che intende dire? “Voglio dire che dipendono anche da come sei messo tu, amministratore pubblico, in quel momento. Hanno un effetto diverso se sei forte, se sei molto forte, e altra rilevanza hanno se sei meno forte, per una varietà di ragioni: se per esempio dentro la tua maggioranza c’è divisione. Come è capitato a me. Perché costruire il termovalorizzatore di Acerra fu una battaglia. Una battaglia violentissima”. Ancora oggi. Non è mica finita.

  

Giovedì scorso Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due capi del governo, hanno litigato proprio intorno ai termovalorizzatori in Campania. Salvini vuole costruirli, li considera modernità, perché sono gli stessi impianti che esistono a Brescia, a Varese, e nel resto del mondo sviluppato. Di Maio invece è contrario e riproduce quel sottile e appestante conformismo ideologico che fino a oggi ha impedito alla Campania – ma non solo alla Campania – di avere un sistema efficiente di smaltimento legale dei rifiuti, malgrado le sanzioni europee, i cumuli di monnezza, gli allarmi della Direzione nazionale antimafia, che ha scritto: “La camorra ha un interesse diretto e immediato a provocare lo stato di tensione sulla raccolta e sullo smaltimento dei rifiuti, traendo profitti enormi dalle discariche da lei stessa controllate”. A proposito. Che ne pensa Bassolino di Luigi De Magistris? Tutti dicono che Napoli sia migliorata, che ormai vince persino il confronto con Roma. Cosa forse facile. Ma tant’è. “Se una cosa a Napoli funziona a me fa piacere. Vorrei però ci fosse più attenzione alle piccole cose. Alla metropolitana, agli autobus, alle strade, alle buche. Tutte queste piccole cose messe insieme fanno grandi cose”.

    

“Da sindaco dissi che a Napoli c’erano troppa impresa pubblica e troppa urbanistica privata. Al sud mancano forze sociali, anche oggi”

Membro del Comitato centrale del Pci dal 1972. Dal 1979 nella direzione regionale della Campania. Poi deputato nel 1987 e nel 1992. Ministro del Lavoro nel primo governo D’Alema. Sindaco osannato del Rinascimento napoletano. Infine governatore inviso quanto le pile di monnezza, affondato nella palude dei rifiuti campani. Da sindaco Antonio Bassolino baciava l’ampolla di San Gennaro “perché era come baciare Napoli”. E saliva le scale con i pompieri per portare i fiori alla Madonna, “per guardare da lassù il popolo di Napoli felice e commosso”. Poi il diluvio. Perché in Italia gli amministratori locali fatalmente, spesso, finiscono indagati? “E’ una dimensione diversa, più esposta del governo centrale. Perché fai, amministri, tutti giorni. E fatta la doverosa distinzione tra chi si muove con correttezza e chi non lo fa, si è più esposti perché ogni giorno si compiono degli atti, si firmano delle carte. Si prendono delle decisioni che hanno delle conseguenze anche legali”. C’è un problema di leggi o di cultura? “C’è la corruzione e c’è il malaffare. E non bisogna dimenticarlo. Ma c’è anche una questione che riguarda le leggi. Il legislatore ha cercato di separare la responsabilità della politica da quella della gestione. Non sempre però questa separazione appare chiara. Nel sud, poi, è tutto più difficile perché la politica è più pervasiva che altrove. Nel Mezzogiorno la politica è ancora molto. Al sud la sfera pubblica è prevalente, talvolta dominante. Ci sono meno soggetti in campo, minore presenza di forze sociali con un loro ruolo e una loro forza. Nel 1993 quando mi candidai sindaco dicevo: ‘Bisogna superare questa situazione che a Napoli vede un’urbanistica tutta privata e un’economia tutta pubblica’. Dato che in politica non esiste un vuoto, se non hai un piano regolatore, le cose non rimangono ferme, significa soltanto che l’urbanistica la fanno altri. Ecco, noi lavorammo per dare alla città un piano regolatore e per privatizzare l’aeroporto di Capodichino. Quella di Capodichino fu una privatizzazione vera. E ora quell’aeroporto funziona. Voglio dire che il sud ha bisogno di più soggetti e di più pluralismo. Ancora adesso”.

   

Nonno di due nipotini, oggi Bassolino è un settantunenne in cerca di equilibrio tra intermittenti malumori e dolori. Quando la maldicenza ti raggiunge non ti molla più, diventa una parte di te, una tabe che ti porti appresso inconsapevolmente. Quando le parole sembrano mancare, quando la luce dei riflettori invece di glorificare acceca, quando la folla attorno anziché festevole mostra la voracità di chi presenta il conto. “Sento ribollirmi dentro questo miscuglio di sentimenti diversi. E poi soprattutto, al di là delle vicende personali, sento grandissimo il problema di quello che io chiamo il mio mondo, della sinistra”. La sinistra. Certi conti non si chiudono mai: perché la mente lì torna quando vuole, capricciosa e inquieta. “Tutti insieme oggi stiamo al 20 per cento. Questo è un problema per il paese. Sento la consapevolezza di quanto sia arduo il cammino. Penso però che se si comincia, se si torna a fare politica, allora le cose possono cambiare. Anche molto velocemente. Bisogna parlare ai senza casa, ai milioni di senzatetto della sinistra. Persone che si trovano nell’astensionismo. Dovremmo sentire tutti il dovere di fare qualcosa”.

   

“Gli amministratori locali sono più esposti del governo centrale. Perché fanno, decidono, tutti giorni. Con conseguenze, anche legali”

E sentendolo parlare viene da pensare che Bassolino sia un superbo mammut. E mammut è detto qui a motivo di stupore, come potrebbe dirsi del bue primigenio, come di uno pterosauro: stupore di bestia non più vista, complessa, dall’elaborato dna, altro che il modello basico del ruminante che ora si aggira nei pascoli dell’Italia politica. Testa ordinata un po’ scolasticamente e linearmente. Sotto la varietà superficiale dei toni, con cadenze improvvisamente calanti o crescenti da oboe, il suo è in realtà un geometrizzarsi rigido. “Manca la politica. Manca la riflessione”, dice. E allora a un certo punto il vecchio sindaco tira fuori un taccuino, fitto di appunti, pensieri: ha le parole già tutte in testa, che gli pulsano come vene. “Nel 1977 mi ricordo una segreteria del Pci in Campania, ma anche una riunione del comitato centrale del Partito comunista, intorno a una lieve flessione elettorale che il partito ebbe a Castellammare. A Castellammare! Eravamo eccessivi”. Insomma se non moriva prima di noia, magari la causa del socialismo faceva pure qualche passo in avanti. “Ma ora c’è l’eccesso opposto”, sorride. “Non si riflette mai su quello che succede. Movimento 5 stelle e Lega stanno attorno al 60 per cento. L’intero centrosinistra, tutti insieme, è al 20. Tre volte di meno. E non era mai successo nella storia italiana. Ci sarebbe stato da discutere dopo le comunali del 2016 quando Renzi perse Roma e Torino, o dopo il referendum perduto, o dopo il 4 marzo… Invece dopo questo terremoto politico non è successo nulla. La Lega è un partito di amministratori locali con baricentro al nord. E se il Movimento cinque stelle prende il 50 per cento al sud, vuol dire che interpreta uno stato d’animo. Il centrosinistra invece cos’è? Chi siamo noi? Chi vogliamo rappresentare? Adesso la strada è lunga. Dobbiamo scalare le mie amate Dolomiti”.

   

“La sinistra? Tocca fare politica, mica mangiare i pop-corn. Bisogna lavorare in positivo, non augurarsi che le cose in Italia si aggravino”

Forze gigantesche servono per salire sulla montagna e scendere nella vecchia trincea. “Ma proprio perché la strada è in salita, bisogna riflettere. Fare politica. Ecco il punto. Tocca proprio fare politica, mica mangiare i pop-corn. Bisogna lavorare sulle contraddizioni, dare sempre il senso che noi lavoriamo in positivo, cioè che non ci auguriamo affatto che le cose si aggravino. Fare politica significa indicare le strade migliori, più utili rispetto a quelle proposte dal governo di Lega e M5s. E questo mantenendo un linguaggio giusto, voglio dire uno stile appropriato. Non urlato. Ma comunque di forza”.

  

E forse un po’ Bassolino chiede un alibi alla propria sofferenza; cerca nell’abitudine della politica, del pensiero politico, una razionalizzazione della propria pena, un senso all’esistere. O forse invece coltiva l’idea del ritorno, chissà, dell’impegno, anche quello più defilato e in penombra, convinto com’è che in fondo il professionismo politico, l’arte e la tecnica, siano fatalmente destinate a riproporsi e dunque a imporsi, alla fine di tutto, malgrado lo smottamento di lingua e di classe che sembra aver modificato per sempre il vocabolario della civiltà. Dunque si rifugia nell’antico. “Le mie prime esperienze politiche nascono dalla lettura delle Lettere dal carcere di Gramsci. Poi, da più adulto, dei Quaderni. Da ragazzo non sopportavo che nelle campagne si tastassero i muscoli dei braccianti, prima di ingaggiarli per il lavoro nei campi. Nelle piazze di paese c’era una specie di mercato degli uomini. Eppure a quei tempi c’erano i sindacati, c’era il Partito comunista… Oggi, nelle campagne, i braccianti immigrati, da Gioia Tauro al Sele, da Napoli a Roma, chi incontrano? E i giovani che hanno studiato, che si sono istruiti, e poi vanno via, chi incontrano dal punto di vista politico? Questo lo dico per insistere su un punto: c’è tanto da fare. E poiché la ricostruzione di una grande forza di centrosinistra è dura, allora ognuno potrebbe fare qualcosa, e tanti assieme potrebbero fare tanto per ricostruire delle speranze, una idealità, una prospettiva politica”.

  

Ecco la parola: politica. Una malattia dalla quale non si guarisce mai. “Ma la politica la si può esercitare in tanti modi”, sorride. “Anche non direttamente”. Rimpianti? “Avrei potuto e dovuto non ricandidarmi nel 2005. Il mio dolore deriva anche da questo: non mi volevo candidare, ma ero l’unico che poteva vincere in Campania. Per me la cosa più semplice sarebbe stata fermarmi, venire a Roma. Ma da tante parti nazionali mi fu chiesto di restare. L’anno successivo, nel 2006, ci sarebbero state le politiche e si pensava che avrei potuto dare una mano stando in regione e a Napoli. Come in effetti è avvenuto. Perché nel 2006 per un pelo vincemmo le elezioni politiche”. Quando Berlusconi perse per ventiquattromila voti, e allora denunciò i brogli e si arrabbiò pure con Beppe Pisanu, il ministro dell’Interno che secondo lui non aveva vigilato abbastanza. “Si arrabbiò con Pisanu perché Pisanu i brogli non volle farli lui. E difatti ho sempre pensato bene di Pisanu”. E mentre Bassolino parla, ogni tanto una timida balbuzie giovanile riaffiora. E’ il passato remoto, una realtà sepolta sotto un cumulo di vita e di macerie. Ogni tanto invece modula sapiente il tono della voce, con padronanza, come nei comizi di una volta: bassi e acuti, rallentamenti e improvvise accelerazioni. E nel parlare sorride come se sotto ogni parola si nascondesse un succoso sottinteso. Se ne sta in piedi, come un giunco oscillante, l’impermeabile ampio sul corpo ossuto, attraversato da un dolore morale, sordo, indeterminato. Ma non è Edmond Dantès, tornato a casa per far vendetta degli sgarbi subìti. “Sento il dovere di fare qualcosa”, dice. “Di dare una mano”.


  

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro, Giancarlo Leone, Flavio Briatore, Fedele Confalonieri, Giovanni Minoli, Luca Cordero di Montezemolo, Urbano Cairo, Claudio Lotito, Giovanni Malagò, Beppe Caschetto, Bruno Vespa, Vincino, Marco Carrai, Ettore Bernabei, Umberto Bossi, Ennio Doris, Paolo Del Debbio, Simona Ercolani, Raffaele Cantone, Milo Manara, Francesco Paolo Tronca, Raffaele La Capria, Carlo De Benedetti, Federico Pizzarotti, Michele Serra, Michele Santoro, Andrea Salerno, Walter Veltroni, Pietro Valsecchi, Marco Bentivogli, Vittorio Sgarbi, Makkox, Vincenzo Scotti, Paola Ferrari.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.