Un presidio della Fim Cisl per l'Ilva. Foto LaPresse

Da Pomigliano all'Ilva. Non è mediocrazia ma diplomazia, bellezze

Marco Bentivogli

Due accordi raccontati da chi li ha firmati. Perché tempi del sindacato sono asincroni da quelli della politica, e portano frutti

La vicenda di Taranto dimostra, al di là di tutta la retorica attorno ai fatti sindacali, che c’è un pezzo di vitalità sindacale di cui l’informazione mainstream non dà traccia. Quando un’organizzazione sindacale abdica al suo ruolo propositivo e propulsore in termini di contenuti sfidanti e parla di democrazia diretta e conflitto, avendoli come fine ultimo, non capisce di avere dissodato il terreno per la per la peggiore semina populista.

  

A Pomigliano d’Arco si sono celebrate tante cose. C’è stato un sindacato che si è ribellato all’esito più scontato, quello in cui la Fca andava a chiudere altre fabbriche, grazie all’alibi dell’eterno “no” della Fiom. Il referendum perso da quel sindacato nel 2011, però, ricordò l’epoca di “tutto il potere ai soviet” (solo se ci danno ragione). E da lì, tutta la sinistra iniziò a perdere. I lavoratori vedevano che l’alternativa agli accordi, al lavoro sindacale, era il benaltrismo, che in quegli anni ha iniziato la ritirata dalle fabbriche per rifugiarsi nei talk-show.

   

Fu proprio in quel momento che si aprì la strada ai monologhi pentastellati che vediamo ogni giorno in televisione. Per fortuna il mondo è altro, a Pomigliano e a Mirafiori avevamo tutti i media contro, compresa la Stampa di Torino. La fabbrica diede un altro responso. Ma nessuno imparò la lezione. E si iniziarono a distribuire medaglie o accuse a un lavoro sindacale svolto da una parte o dall’altra. Il processo di costruzione del consenso sindacale e politico ha tempi diversi. E’ un grande tema. Ma è proprio grazie a questa asincronia che siamo riusciti a salvare sia la Fiat sia l’Ilva.

  

All’Ilva di Taranto il sindacato dei metalmeccanici ha vissuto momenti di tensione e divisione, ma nella stretta finale ha fatto tutta la trattativa. I segretari generali dei metalmeccanici hanno concluso con ArcelorMittal l’accordo risolutivo. Certo, il governo nell’ultimo miglio ha fatto la sua parte, ma con il 99 per cento del lavoro già svolto. La cosa più singolare è come il medagliere mediatico abbia assegnato il palmarès su altre basi, consegnandolo al ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, e a sindacalisti assenti nella trattativa ristretta (ma spesso presenti in televisione).

  

Quale conforto si può trovare in tutto ciò? I lavoratori, la fabbrica. Persone e luoghi dove i personaggi catodici spariscono. Ci sono state 44 assemblee gestite con rapidità in otto giorni. Tutti parlano del voto, nessuno parla della cosa più bella: i nostri delegati di reparto a pancia a terra a illustrare le buone ragioni dell’intesa ma soprattutto il confronto con i lavoratori.

  

Tra quattro anni sapremo se l’azienda ridurrà la sua base occupazionale – e forse sarebbe stato meglio avere altre attività per 1.500 persone – o se i 10.700 assunti resteranno costanti anche nel medio periodo. Se il governo si fosse occupato di meno del confronto ossessivo con i suoi predecessori, forse questa riflessione sarebbe stata più serena. La politica, men che mai quella recente, vivrà la soddisfazione della fiducia che emerge dopo un confronto in cui chi non scappa mai, facendo il sindacalista, viene preso a riferimento, nel bene e nel male, dai lavoratori.

  

Credo che la democrazia diretta sia il simulacro dietro cui si nascono i sindacalisti e i politici a cui trema la mano, quelli cioè incapaci di assumersi delle responsabilità. E’ vero, ci sono gli uomini e i caporali, ma quando gli uomini e le donne insieme costruiscono una svolta, come abbiamo fatto all’Ilva, le uniformi di queste web star puzzano di naftalina. E ci si accorge che i media mostravano come vessilli di guerra quelli che non erano altro che dei vecchi scolapasta in testa.

  

Marco Bentivogli è segretario generale della Fim-Cisl

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