Silvio Berlusconi alla fabbrica FIAT (foto LaPresse Torino/Archivio storico 25/10/1994)

Mediaset in barile

Renzo Rosati

Perché l’accordo “storico” con Sky libera il Cav. dalle grinfie di Bolloré ma non da una tv retrò

Roma. Anche ieri in una giornata di lievi cali di Borsa, il titolo Mediaset ha arrotondato un rialzo settimanale del 13 per cento. Questo grazie all’accordo con Sky: scambio di contenuti per il momento (canali di serie e cinema e le tre reti generaliste Mediaset visibili su Sky, un’offerta sportiva di quest’ultima sul digitale dell’azienda italiana); ma soprattutto, entro fine 2018, il passaggio al gruppo Rupert Murdoch, oggi controllato dalla Walt Disney, di Mediaset Premium, la mai veramente decollata pay tv del Biscione. I mercati premiano l’intesa intanto perché dovrebbe mettere fine al contenzioso legale con Vivendi di Vincent Bolloré, dopo che il gruppo francese si era tirato indietro dalle nozze che dovevano costituire “la risposta europea a Netflix”, ma soprattutto nella prospettiva che Mediaset si liberi delle perdite – un miliardo in dieci anni, 300 milioni nel 2017 – generate da Premium. L’intera partita, vista da ogni angolazione, mostra che tutti gli attori coinvolti – Berlusconi, Murdoch, Bolloré – stanno giocando una battaglia sulla difensiva.

   

Sul versante Sky, la famiglia Murdoch si trova da una parte a fronteggiare le accuse di concentrazione monopolista da parte dei regolatori britannici, e dall’altra a difendersi dalle ambizioni di Comcast, primo operatore americano via cavo, che intende strappare al fondatore, e quindi ai suoi neocontrollori Disney, il 100 per cento dell’azienda satellitare con abbonati in Regno Unito, Germania, Italia, Austria e Irlanda.

   

 

Ma ancora più difensiva rischia di rivelarsi la strategia di Mediaset. Innanzi tutto Vivendi, non è sconfitta: l’azienda di Vincent Bolloré ha ancora il 29 per cento del Biscione, pur se l’Autorità delle comunicazioni le ha imposto di congelarne il 19 in un blind trust, scendendo al 10 nei diritti di voto, per non dare luogo ad una concentrazione con Tim, dove Vivendi ha il 24 per cento e se la vede con l’opposizione del fondo americano Elliott che per ora sta mettendo alle strette i francesi (con il placet del precedente esecutivo, ancora in carica). Amos Genish, amministratore delegato di Tim su nomina francese, considerato colomba anche al fondo attivista di Paul Singer, pur ammettendo “alcuni errori commessi in una prima fase da Vivendi”, ha chiesto alle autorità italiane ed europee di “esaminare attentamente l’intesa Sky-Mediaset per evitare una concentrazione ancora maggiore dell’esistente”. Genish cita soprattutto i diritti sul calcio gestiti, per la serie A italiana, dalla spagnola Mediapro e finora sempre contesi tra Sky (che li detiene) e Mediaset (che dopo essersi svenata per accaparrarsi la Champions League l’aveva ceduta a Sky per il 2018-2020). Genish un po’ concede un po’ avverte, affermando che l’interesse di Tim è di partecipare alla spartizione calcistica per offrire “un po’ di gol agli abbonati Tim”.

Con i soli talk-show non si cresce

Ma anche guardando al medio orizzonte, qual è la strategia di Mediaset una volta liberatasi della pay tv? Di fatto tutta centrata sulla tv generalista, imperniata oggi sui contenitori nazional-popolari di Barbara d’Urso (Domenica live, Pomeriggio cinque, la prossima edizione del Grande fratello) e Maria De Filippi (C’è posta per te, Amici). Gli esperti – che non sempre ci prendono – dicono che si tratta di una televisione troppo per le famiglie e gli anziani, nonostante le incursioni giovanilistiche delle Iene. Ma è pur vero che finora il pubblico televisivo italiano, anche a causa della crisi economica, si è mostrato tra i più tradizionalisti d’Europa: solo il 27 per cento di abbonati a una pay tv contro il 33 della Francia e il 55 della Gran Bretagna. Altrettanto vero, tuttavia, che questo modello, finanziato dalla pubblicità (anch’essa in crisi), oggi rende infinitamente meno degli anni d’oro: gli utili Mediaset sono scesi da 600 a 100 milioni. Inoltre in questo modo si torna al vecchio duopolio Mediaset-Rai, anch’essa generalista e alimentata dal canone. Però Viale Mazzini, se perde nei talk show familiari, sta mostrando più vivacità nelle serie tv autoprodotte, il cui simbolo è il commissario Montalbano, mentre Mediaset le compra all’estero. Quanto ai film, la competizione tra Medusa e Rai Cinema è più o meno alla pari. Ma se il business si fa sempre più con lo streaming e con abbonamenti multitasking come quello proposto da Amazon Prime (e-commerce più tv, con recente raddoppio del prezzo), per non parlare della sempre citata Netflix, il duopolio Mediaset-Rai non pare attrezzato. Il mercato delle serie televisive – che dello streaming sono il piatto forte – è controllato oltre che da Netflix e Amazon, da Abc, Nbc e Fox. Le prime due sono state per decenni network generalisti, fino ad essere comprate rispettivamente da Disney e Comcast. La terza è anch’essa passata alla Disney.

 

 

La globalizzazione dei media non è molto diversa da quella dell’automobile. Per dire: se Fiat Chrysler, dopo aver puntato su brand mondiali come Jeep o esclusivi come Ferrari, tornasse alle 128, quanto reggerebbe? La risposta è scontata.

Di più su questi argomenti: