La novità più appariscente alla fine degli anni Sessanta, gli apparecchi telefonici in diversi colori

Il valzer delle cornette

Stefano Cingolani
A ogni cambio di governo, spunta per Telecom un nuovo proprietario. Con Renzi s’avanzano i francesi di Orange.

Tirato per la giacchetta da François Hollande perché il presidente francese spera di creare attorno a Orange un campione europeo delle telecomunicazioni, Matteo Renzi se l’è cavata con diplomazia: “Lasciamo la parola al mercato”. Il mercato, che ha “nome, cognome e soprannome” direbbe Alessandro Manzoni, alla cornetta del telefono non spiccica una parola d’italiano. Vodafone parla inglese dopo aver praticato l’idioma di Goethe. Wind adesso parla russo, dopo aver comunicato in arabo egiziano. La lingua ufficiale di 3 è il cantonese. Per Fastweb è più complicato, anche se prevale lo svizzero tedesco sul francese. E stiamo citando compagnie fondate da italiani, non filiali come quella di British Telecom. La più italiana di tutte, la Telecom erede della Stet, della Sip, dell’Ast, insomma delle vecchie aziende telefoniche statali, dopo aver masticato (amaramente) lo spagnolo si cimenta nel francese, addirittura con due accenti diversi: quello parigino di Xavier Niel e il bretone di Vincent Bolloré, principale azionista che viaggia ormai verso quota 24 per cento.

 

Secondo i suoi esegeti, Bolloré ha mandato un messaggio chiaro. La fusione Orange-Telecom per il momento gli sembra una “connerie” (cazzata traduce lo Zanichelli). Sono cose che si dicono solo agli intimi, sia chiaro. Sarà un predatore come lo ha definito Mathieu Pigasse, il capo della banca Lazard e proprietario del Monde, ma il bel Vincent è un uomo di classe e non pronuncerebbe mai a voce alta delle parolacce, né in piazzetta Cuccia (è il primo azionista di Mediobanca insieme a Unicredit) né a Trieste ove un francese a lui nient’affatto sgradito, Philippe Donnet, s’appresta a diventare amministratore delegato.

 

Per il momento Vivendi, il gruppo francese dei media controllato da Bolloré che possiede il pacchetto di comando in Telecom Italia rinominata Tim, ha altre priorità. La prima, all’interno della compagnia telefonica italiana, è guidare la macchina. Fuor di metafora, sostituire Marco Patuano con un uomo di fiducia. Facile a dirsi, ma di fatto molto più complicato del previsto. Bisogna trovare la persona giusta e questa volta i cacciatori di teste non sono d’aiuto. Il nuovo capo azienda deve piacere ovviamente a Bolloré e ad Arnaud de Puyfontaine (presidente di Vivendi), deve essere autorevole, conosciuto, gradito anche alla struttura di Telecom che già più volte nella storia recente ha sofferto le briglie troppo tirate. Si sono fatti i nomi di Tom Mockridge, l’ex capo di Sky Italia o di Flavio Cattaneo. Ma un ruolo rilevante nella scelta spetta anche al presidente Giuseppe Recchi, che gode la fiducia di Alberto Nagel, il pilota di Mediobanca. Tutti nomi, cognomi e soprannomi del mercato, ovviamente.

 

Il capitalismo dei salotti non gode più di buona salute, ma in Tim le azioni si contano (e quelle di Bolloré sono più numerose), e si pesano anche. Sul piatto della bilancia ci sono anche le opzioni di Xavier Niel che non ha rivelato le sue intenzioni. L’unica cosa certa è che lavora in tandem con Pigasse, il “finanziere rosso”, entrato nel gruppo di consiglieri eccellenti di Renzi a Palazzo Chigi. Mentre sullo sfondo si staglia sempre la Cassa depositi e prestiti guidata da Claudio Costamagna, il quale agli occhi di molti sta diventando una sorta di Mr. Wolf, quello che in “Pulp Fiction” risolveva i problemi creati dalle invenzioni di Quentin Tarantino. La pazza idea rilanciata sui giornali è far partecipare la Cdp alla costruzione del campione europeo. D’altra parte, azionista importante di Orange è la Caisse des dépots et consignation, longa manus di Bercy (alias ministero delle Finanze francese). Con un sogno nel cassetto: coinvolgere anche Deutsche Telekom che ha come socio forte la KfW cioè la variante germanica delle due casse latine. Sono progetti politici, magari destinati a restare nella mente dei governi e a infrangersi quando si comincia a parlare di cifre, di bilanci, di profitti e di perdite. Le telecomunicazioni sono politicamente sensibili. E’ il segno della loro importanza strategica, ma è anche la loro dannazione. Se l’Italia ha perso le sue chance è anche per colpa della politica.

 

Alla fine degli anni Novanta, mentre Romano Prodi privatizzava la Stet cercando disperatamente capitalisti italiani che ci mettessero i quattrini e acconciandosi poi ad accettare il “nocciolino duro” (copyright Massimo D’Alema) di Umberto Agnelli & C., intervistai a Parigi Michel Bon, allora presidente di France Télécom, la madre di Orange. Fui colpito da alcune sue affermazioni che mi sembrarono paradossali. “Beati voi italiani – disse in sostanza – che amate chiacchierare e state così a lungo al telefono. E’ una manna per i guadagni di una compagnia telefonica, anche per questo siete più avanti che in Francia”. Più avanti? Ci vogliono mesi per allacciare una linea telefonica. “Dipende dal servizio, che è mal organizzato – fu la replica di Bon – Ma voi siete stati i primi ad abolire il centralinista e passare alla teleselezione e i primi a voler cablare tutto il paese”. Bon era ottimista e anche un po’ ingenuo, perché di lì a poco l’Italia avrebbe venduto la primogenitura per un piatto di lenticchie. Tuttavia non aveva torto. Basti pensare ai telefonini.

 

Nel nuovo business aperto dallo standard Gsm o 2G (introdotto in Italia nel 1992), si butta Telecom e Vito Gamberale partorisce l’idea della carta prepagata (in realtà confesserà di averla copiata dalla Colombia dove era usata come misura anti-frode). Tim sale così in vetta a ogni classifica internazionale. Carlo De Benedetti non rimane indietro. Nel 1990 con Olivetti, della quale è azionista principale e presidente, fonda Omnitel insieme a Lehman Brothers, l’americana Bell Atlantic, la svedese Telia. Nel 1994 si mette insieme al consorzio Pronto Italia (Zignago, Mannesmann e altri) e ottiene la concessione del servizio Gsm, per 15 anni. In zona Cesarini si potrebbe dire, perché il via libera del ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi, arriva poco prima che il governo si dimetta. Poi firma una convenzione con il ministero delle Poste per coprire almeno il 40 per cento del paese. Due anni dopo è già al 60 per cento. Nel 1999 Olivetti, in seguito all’acquisizione di Telecom Italia, cede a Mannesmann che due anni dopo vende a Vodafone.

 

Il telefonino è il nuovo Eldorado dell’Italia mentre s’avvicina il cambio del secolo e della moneta. L’Enel, guidata da Franco Tatò, si mette insieme a France Télécom e a Deutsche Telekom, fonda Wind che ottiene nel 1998 la licenza di telefonia fissa e mobile. Nel 2001 prende Infostrada, l’azienda di telefonia fissa, da Mannesmann. Nel 2003 Wind è tutta italiana. Nel 2005 l’Enel cede l’intero servizio a Naguib Sawiris che vuole creare un campione mediterraneo. Nel 2010 “il faraone”, come viene chiamato in Italia, vende al gruppo russo Vimplecom che fa capo all’oligarca Mikhail Fridman intimo di Vladimir Putin. Anche la 3 era nata italiana nel 1999 dalla mente di Franco Bernabè e Renato Soru. Allora si chiamava Andala. Dura un anno, giusto il tempo di aggiudicarsi le licenze poi arriva Hutchison Whampoa del magnate cinese Li Ka-Shing e la neonata diventa H3G Italia. Fastweb è opera di Silvio Scaglia che aveva lavorato in Omnitel, insieme al finanziere Francesco Micheli e all’azienda elettrica milanese. Cabla Milano con la fibra ottica e passa tutto a Swiss Telecom. Nel frattempo, Telecom Italia ha cambiato molti padroni.

 

La storia ha riempito libri e giornali quindi può bastare ricordarne le tappe e i protagonisti. Ma quel che colpisce è l’assoluta simmetria tra i cambi dei governi e della proprietà. Con Prodi, come abbiamo visto, c’è il nocciolino, poi arriva a Palazzo Chigi Massimo D’Alema e ferma la mano di Franco Bernabè (amministratore delegato di Telecom Italia) che sta per firmare la cambiale di matrimonio con Deutsche Telekom. D’Alema dà via libera alla scalata della cordata guidata da Roberto Colaninno insieme ai capitali coraggiosi della rude razza padana. Più che capitali sono debiti, perché l’offerta pubblica d’acquisto costa un patrimonio. E quando si tratta di sistemare i conti con le banche, il ciclone Berlusconi travolge il gracile governo di centro-sinistra guidato da Giuliano Amato. Colaninno, che è una vecchia volpe, capisce che per lui la vita si farebbe grama e lascia. A comprare è la Pirelli di Marco Tronchetti Provera, sotto lo sguardo benevolo del nuovo governo e con l’opposizione aperta di De Benedetti che, consigliere di Pirelli, vota contro l’acquisizione.

 

MTP prevale, ma CDB gli lancia contro l’incrociatore mediatico: la Repubblica sarà implacabile, anche se bisogna dire che la gestione Tronchetti nasce sotto una pessima stella. Siamo nel 2001, la bolla internet si sta sgonfiando anche in Europa e dopo pochi mesi arriva l’11 settembre con il crollo delle Borse. Sarà dura recuperare i valori di Borsa, ancor più difficile gestire il mastodonte che, pur essendo nettamente dominante (soprattutto nella telefonia fissa) ha perso il monopolio, deve far fronte a concorrenti agguerriti e nel mobile, da dove arrivano i profitti maggiori, ha davanti a sé colossi multinazionali come Vodafone ed è impiombato dai debiti. Dovrebbe compiere scelte radicali: scorporare la rete, potenziare i servizi, allearsi. Si parla di Murdoch, o di Mediaset. Apriti cielo.

 

Cambia di nuovo il governo, torna Prodi a Palazzo Chigi e Tronchetti vende. Si crea un azionariato complesso, talvolta confuso, che vede in campo Mediobanca, le Generali e Intesa, con la spagnola Telefonica guidata da César Alierta. “Saranno spagnoli, ma sanno fare il loro mestiere”, commentano i mercatisti con una buona dose d’ingenuità. Alierta in realtà viene dall’azienda dei tabacchi che ha portato alla privatizzazione, ed è stato a lungo inseguito (insieme alla moglie) da pesanti accuse di insider trading. Ma è sveglio, legato al partito popolare di José Maria Aznar, sostenuto dal governo e dalle grandi banche spagnole a cominciare dal Santander, in odor di Opus Dei. Nemmeno lui, però, saprà dare una chiara visione e una strategia di lungo periodo. In più ci sono di mezzo i conflitti d’interesse, perché nell’America Latina italiani e spagnoli sono in aperta concorrenza. Una valutazione oggettiva di quegli anni non è stata ancora fatta, ma è evidente che Telecom Italia si è limitata a galleggiare. Nel frattempo, il mercato delle telecomunicazioni s’è trasformato, con altri nomi, cognomi e soprannomi, con indirizzi nuovi di zecca. E la politica? Prodi è durato poco, è tornato Berlusconi, l’Italia si è spinta sull’orlo del default, l’ha ripescata Mario Draghi con l’aiuto di Giorgio Napolitano e Mario Monti, poi è passata la meteora Enrico Letta e Telefonica ha cercato di prendere il completo controllo di Telecom Italia, infine è uscito da Palazzo Vecchio il rottamatore fiorentino. E, puntualmente, sono sbarcati dei nuovi padroni.

 

Come si fa a chiamare una coincidenza questa impressionante sequenza di cambi paralleli? Eppure la compagnia telefonica è privata, il governo non possiede nemmeno un’azione. Certo, la telefonia ha un valore strategico, sensibile per la sicurezza nazionale: i cavi e le torri trasportano informazioni ad altissimo potenziale. Ma questo è vero ovunque. La rete, sia quella fissa sia quella mobile, è un monopolio pubblico che viene dato in concessione ai privati e questo pone problemi complessi ai singoli operatori. Non solo, la tutela della concorrenza impedisce che si creino posizioni eccessivamente dominanti. Quindi le Tlc sono sottoposte al controllo preventivo di numerose autorità. Anche questo, tuttavia, è vero dappertutto, e non spiega l’anomalia italiana.

 

C’è un’altra caratteristica comune che in Italia ha assunto un connotato particolare: il governo di fatto ha un potere di veto e di indirizzo utilizzando incentivi fiscali o erogazioni di denaro pubblico. Prendiamo il progetto per la banda larga in tutta Italia. Sono a disposizione sei miliardi, almeno sulla carta, ma dopo un anno dal suo acclamato lancio, ancora non ha preso quota. Nel marzo del 2015 il governo aveva approvato la strategia per lo sviluppo della rete. Andrea Guerra, il manager che aveva guidato la Luxottica, era stato incaricato di far partire l’intera operazione. Disse con piglio decisionista: “O si procede in un paio di mesi al massimo o non se ne fa nulla”. Guerra se ne è andato a Eataly, e la banda larga è a bagnomaria.

 

Intanto, le telecomunicazioni non restano ferme, anzi compiono un nuovo salto di paradigma che rischia di spiazzare chi non è abbastanza veloce da adattare rapidamente le proprie strategie. Cambi di mano, fusioni, acquisizioni accompagnano qualsiasi industria quando passa dall’infanzia alla giovinezza, alla maturità. E le Tlc, attraversate da ondate di innovazioni continue, pur avendo già un secolo, non sono ancora mature, e forse non lo saranno mai. In Italia, tuttavia, più che operazioni industriali sembrano fiches gettate sul tavolo verde con una logica politica. E’ una delle ragioni per cui gli italiani, bravissimi nel contribuire a un passaggio tecnologico fondamentale, come quello dal telefono fisso al mobile, non sono in grado di consolidare un campione nazionale capace di farsi davvero globale, come invece è successo (sia pur in circostanze diverse) alla Fiat. Non sarà perché il gruppo torinese ha trovato una continuità proprietaria e un manager coi fiocchi?

 

Nei telefoni l’occasione è perduta, vedremo cosa faranno Bolloré, Niel e i loro amici, però Telecom Italia (pardon Tim) gioca in difesa. Lo stesso può accadere anche sulla frontiera della convergenza tra tv, reti e social media e nella battaglia dei contenuti che determinerà i nuovi vincitori di questa particolare guerra di mercato. Dopo Google, dopo Facebook, adesso c’è Netflix che dovrebbe spingere gli operatori europei a una risposta, magari coordinata come vorrebbe fare Vivendi, perché nessuno da solo è in grado di mobilitare tante energie finanziarie e intellettuali da tener testa alla nuova sfida americana. E allora, dove mettiamo l’italianità, la rete strategica, i complotti di palazzo, lo scambio di figurine? Vent’anni di giochi pericolosi spazzati via con un click.

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