Murdoch con la moglie Jerry Hall al Chelsea Flower Show (foto LaPresse)

Come Bolloré anche Murdoch subisce la rivoluzione digitale di Netflix & Co.

Renzo Rosati

L'impero dello spettacolo dello Squalo nelle fantasie di Disney

Roma. Sostituire il logo con fanfara e riflettori della vecchia 20th Century Fox, disegnato negli anni Trenta da Emil Kosa, con un 30th Century Fox, era sembrata otto anni fa un’idea brillante a Matt Groening e David Cohen, autori di Futurama, serie tv di cartoni animati ambientata nel 2999. Ma così come il successo del cartoon, anche l’idea di spingersi troppo in avanti con quel simbolo commissionato dal mitico Darryl F. Zanuck – e che dal 1985 è il marchio dell’impero di Rupert Murdoch – è stata ridimensionata a un restyling: il 21 al posto del 20. Ora però anche questo pare inappropriato per il futuro dell’impero dell’86enne Squalo e dei suoi due eredi designati, Lachlan e James. Il predatore, noto in Italia ed Europa soprattutto come padrone di Sky, rischia di diventare la preda. La Disney ha mire sui comparti cinema e tv di 21thCentury Fox.

 

La vicenda, rivelata per prima dalla Cnbc, rappresenta come poche il passaggio a livello globale dall’era dei giganti dell’intrattenimento e delle news (News Corp. è la sub-holding di Murdoch nell’informazione) a quella del nuovo potere dei contenuti via internet, del digitale, dell’e-commerce e dello streaming. Una battaglia che su scala ridotta coinvolge da noi la Tim controllata dalla francese Vivendi e Mediaset dei Berlusconi: senza accordi, e alzando barriere nazionalistiche non strettamente necessarie, il pericolo è per tutti; ma qui chi rischia di più è la Rai. In attesa che attraversi l’Atlantico, questo capitolo della saga dei Murdoch vede appunto all’attacco la Disney, secondo conglomerato mediatico mondiale dopo Comcast. I discendenti di Walt Disney, che oggi nella produzione controllano anche Pixar, Lucafilm, Marvel Studios, nella distribuzione Buena Vista e Touchstones, i network Abc e quello sportivo Espn, e che nel 2019 apriranno allo streaming, cercano maggiore massa critica. Tutto per difendersi a loro volta dai big di internet e dell’e-commerce che hanno iniziato a produrre film e serie tv vendendole sul web, su tutti Netflix e Amazon (e in attesa di Google e Facebook).

 

Le trattative con i Murdoch, iniziate all’inizio del 2017, per ora sono ferme: anche per capire come reagiranno i regolatori americani, e la Casa Bianca, mentre a sua volta la 21th Century Fox è impegnata ad affrontare l’Antitrust e la politica inglese dopo il takeover da 16,6 miliardi di dollari effettuato nel 2016 per la totalità di Sky Plc, piattaforma satellitare britannica che controlla anche il brand italiano. Il capostipite infatti è diventato troppo ingombrante nel Regno Unito da quando, dopo il Sun e News of the World, ha comprato anche il Times e Sunday Times. Schierandoli tutti: anti monarchici i tabloid, già filo-blairiano il Times, oggi Murdoch è avversato sia dai conservatori sia dai laburisti corbyniani. All’inverso negli Stati Uniti lo Squalo ha fatto di Fox News il canale tv, e nei giornali il New York Post e oggi anche il Wall Street Journal, gli organi più filo-repubblicani. Più che politici però i problemi di Murdoch sono di strategia: il gruppo è in ritardo nello streaming, cioè dove i clienti altrui crescono in modo esponenziale mentre gli abbonati alla pay tv restano gli stessi.

 

Anche la successione in 21th Century Fox che sembrava risolta con la nomina di James a ceo e Lachlan a quella di co-presidente esecutivo accanto al padre, complica le cose. I due eredi sembrano favorevoli a una sorta di cessione in blocco, aprendo le trattative non solo a Disney ma anche a gruppi di telecomunicazione in caccia di contenuti, come Verizon e Charter. Il patriarca e il management difendono le posizioni nei media e nella tv. Uno “spacchettamento” porterebbe conseguenze in Europa, a partire da Sky.

 

Per l’Italia un concorrente ancora più potente nel settore dei contenuti e dello streaming indebolirebbe ulteriormente Mediaset e Rai. Per la prima diverrebbe così quasi obbligato l’accordo con Vivendi, il gruppo multimediale francese che controlla Tim. Per la seconda proseguire da sola, con tre reti generaliste e il controllo pubblico, non costituirebbe certo una strategia, ma il quasi certo declino.