San Francisco (foto Pixabay)

Perché la Silicon Valley non è più essenziale per creare innovazione

Alberto Brambilla

Amazon ha snobbato San Francisco. Il mito di un unico distretto tecnologico integrato come faro globale dell’innovazione appartiene alla storia di inizio millennio

Roma. Amazon ha snobbato la Silicon Valley e San Francisco e sta restringendo il campo a venti città, di cui tre vicino a Washington, per decidere dove stabilire il suo secondo quartier generale in America, dopo la sede centrale di Seattle. Jeff Bezos aveva lanciato un concorso al quale hanno partecipato 238 città desiderose di ricevere almeno 5 miliardi di investimenti diretti dal colosso mondiale dell’e-commerce, oltre al ricco giro d’affari dell’indotto.

   

La decisione di Amazon di fare affari lontano dalla Valley fa pensare che il mito di un unico distretto tecnologico integrato come faro globale dell’innovazione appartenga alla storia di inizio millennio.

  

I giovani cinesi fondatori di startup ora non considerano più un rito quello di passare da Palo Alto in pellegrinaggio come in passato, scrive il Wall Street Journal. L’industria digitale cinese ha copiato il modello americano e l’ha riprodotto con successo creando colossi di pari rango, tra cui Tencent e Alibaba, forte di una forsennata crescita domestica nella diffusione di internet e nell’uso di smartphone, più rapida di quella dell’India, la nazione più popolosa del mondo e altrettanto determinata nella digitalizzazione dell’economia.

  

Il premio Nobel per l’Economia, Edmund Phelps, nel suo discorso all’Università Luiss di giovedì, quando ha ricevuto la laurea honoris causa, ha chiarito che sarebbe straniante se tutta l’innovazione prodotta nel mondo dovesse derivare soltanto dalla Silicon Valley che genera solo il 3-4 per cento del pil americano. E per questo le economie avanzate dovrebbero, dice Phelps, recuperare la vitalità e il mordente dell’èra moderna, del Diciannovesimo secolo, invece che adagiarsi con flemmatica fede messianica sui valori inconsistenti della post modernità. Come se la caverebbe un millennial la cui ambizione è vivere vicino alla casa (o in casa) dei genitori nei panni di Oliver Twist nella Londra vittoriana? Certo non potrebbero usare l’app di Uber per fuggire dalla miseria.

      

L’Economist in edicola dedica la copertina ai giganti tech descrivendoli con l’acronimo “BAAD” (big, anticompetitive, addictive e destructive to democracy). Le grandi piattaforme – Google, Amazon, Facebook, Amazon, Microsoft – sono innovative ma a volte agiscono male. Nell’ultimo decennio hanno comprato 519 società allo stadio embrionale e, a volte, le hanno soffocate a detrimento della concorrenza e della nascita di nuove imprese, già bassa negli Stati Uniti.

   

La reputazione dei colossi è continuamente aggredita dalla cronaca. Facebook e Google dominano il flusso di informazioni e delle ricerche online. Il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg non è stato in grado di contrastare la diffusione di “fake news” e ha ripiegato cambiando l’algoritmo del social network facendo in modo di privilegiare la diffusione in bacheca dei contenuti degli “amici” anziché quelli dei media o degli inserzionisti (che stanno già lasciando Facebook per altre piattaforme). Apple si compiace di essere il primo contribuente d’America dopo il rimpatrio di 38 miliardi di dollari per via della riforma fiscale di Trump, ma non ha digerito il recente danno reputazionale per avere venduto iPhone con batterie difettose. Dopo Steve Jobs Apple pare avere perso il tocco per il marketing. Due azionisti hanno invitato Apple a prendere provvedimenti la dipendenza da smartphone nei bambini prima che sia un problema.

      

Mike Moritz è socio del fondo Sequia Capital, uno dei più blasonati della Silicon Valley. Sul Financial Times ha criticato proprio la decadenza della cultura imprenditoriale nella Valley, dove, dice, stanno “impazzendo” con discorsi sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, “brontolano” perché hanno bisogno di spazi per sessioni di musica jazz. Secondo Moritz per molti aspetti, a cominciare dall’etica del lavoro, è “più facile fare affari in Cina che in California”. La Valley è ormai periferia dell’innovazione?

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.