Il salvatore tech
Apple vuole fare il Netflix dei giornali, ma sarà l’ennesima delusione per i media in crisi
Roma. E’ una storia che si ripete dai tempi di Chris Hughes, forse lo ricorderete. Hughes è il cofondatore di Facebook (collaborava con Zuckerberg) che qualche anno fa decise di facebookizzare i media americani. Si comprò il New Republic, magazine cartaceo venerabile, e generò aspettative incredibili, ma la sua avventura terminò in un disastro dopo appena un anno, quando si scoprì che il progetto di trasformare il Nr in una “digital media company verticalmente integrata” – qualsiasi cosa volesse dire – prevedeva molti tagli del personale e poca letteratura. Da allora (era il 2014) il rapporto tra i media e le grandi società tecnologiche non ha fatto che diventare sempre più parossistico. I media, spesso in crisi di finanze e di idee, vedono nella tecnologia il salvatore ricco di risorse, e ne sono attratti come falene. Ma la tecnologia vede nei media un business in perdita, e da questo equivoco sono derivate delusioni cocenti per i giornali di tutto il mondo.
L’ultima delusione in fieri è quella di Texture, un servizio che vorrebbe fare il Netflix dei giornali. Texture è il frutto della collaborazione tra alcuni dei maggiori editori americani (Condé Nast, Hearst, Meredith, Rogers Media) e funziona che per dieci dollari al mese si possono leggere i migliori articoli di magazine importanti, dal New Yorker a Vanity Fair a Esquire. Il servizio esiste da molti anni e non ha mai suscitato brividi particolari né tra i lettori né tra gli addetti ai lavori, ma questa settimana Apple ha annunciato la volontà di comprarlo e immediatamente è scattato il riflesso pavloviano. Per un felice ciclo di news, i media hanno trovato un nuovo salvatore: Apple si butta sull’informazione! Cupertino vuole fare il Netflix delle news! – e tutti a immaginare futuri radiosi.
Come è ovvio, il salvatore non c’è. Apple ha comprato Texture (finora c’è solo l’annuncio, l’acquisto sarà formalizzato nei prossimi tempi) per rimpolpare la sua offerta di servizi (musica, film, serie tv, news), ma per un gigante che vale quasi mille miliardi di dollari l’intero mercato dell’informazione è poco più che una briciola – un business secondario che vale meno delle cuffiette dell’iPhone. E’ successo così con Facebook. Gli editori pensavano di aver trovato un alleato in Mark Zuckerberg, rassicurati anche dalle dichiarazioni di amicizia che arrivavano dalla dirigenza dell’azienda. Negli ultimi anni, i giornali di tutto il mondo hanno fatto sempre maggiore affidamento su Facebook per ottenere traffico e lettori: hanno fatto investimenti e prodotto contenuti seguendo i dettami di Zuck, ma poi il social network ha deciso che avere troppe news era un impedimento più che un vantaggio (troppi troll russi e troppe controversie), ha cambiato l’algoritmo e tutto, contenuti e investimenti, è finito per aria. Alcune piccole imprese editoriali online sono perfino fallite. Facebook non è mai stato davvero interessato alle news, non sono il suo business e non c’è ragione per cui lo diventino.
L’unico caso di collaborazione proficua tra media e tech è, almeno per ora, quello tra il Washington Post e Jeff Bezos. Il fondatore di Amazon ha comprato il WaPo come investimento personale, e paradossalmente si è comportato come un editore più tradizionale: ha pompato soldi e tecnologia, ma ha lasciato i giornalisti a fare i giornalisti. Ecco, questo forse è un buon consiglio.
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