Joan Acocella - foto Wikipedia

Il lutto

A lezione da Joan Acocella per un giornalismo culturale libero dall'oggettività

Ludovica Taurisano

La stampa internazionale piange e New York mormora parole di cordoglio e ammirazione per la morte di una delle critiche di danza più celebri a livello mondiale, avvenuta il 7 febbraio scorso

Il giornalismo internazionale piange e New York mormora parole di cordoglio e ammirazione per Joan Acocella. Nata in una San Francisco florida nell’anno della conferenza di Yalta, inseguì un dottorato in letteratura comparata per anni, per poi raggiungerlo dopo che era già stata sedotta dalle coreografie di George Balanchine. Fu un amore irrimediabile, che a partire dagli anni Ottanta l’avrebbe resa una delle critiche di danza più celebri, per testate come il Financial Times, il Wall Street Journal e l’iconico New Yorker. Riuscì a guadagnarsi la fiducia di danzatori russi come l’esule Mikhail Baryshnikov, e si accreditò come curatrice del memoir di Vaslav Nijinsky, tra i pionieri dei Ballets Russes in un’epoca dorata in cui il balletto riusciva a catalizzare le altre forme estetiche dell’espressione. Amante della psicologia e della letteratura, Acocella combinava genio a vivacità intellettuale. Con acume spaziava dallo studio dell’isteria come fenomeno imputabile a una condizione socio-strutturale di povertà, alla critica letteraria di Willa Cather, in cui la tragedia connaturata all’esistenza veniva corollata da una lucida consapevolezza politica. 

 

I giornalisti americani continuano a tributarle onori, perché la figura di Acocella non è da leggersi come l’avvento messianico di una mente eccellente: è l’incarnazione di un modello di critica d’arte e di giornalismo culturale, come meta-critica dentro i conflitti dell’esistente (alla maniera di Rahel Jaeggi e Alfonso Berardinelli), e senza pretese di oggettività assoluta o astensione etica. La sapienza enciclopedica le consentiva una mobilità duttile dentro e fuori l’oggetto di analisi: il prodotto d’arte era sia sintesi di un baluginio di infinito inconoscibile, che esito di una sovrastruttura capace di produrlo e di condizionarne la ricezione. La scrittrice cercava la relazione dialettica tra l’arte e l’epoca che ne avrebbe selezionato i versi e i colori più comprensibili. Poteva spaziare da Sontag a Primo Levi, da McDormand a Gilgamesh, da Manzoni a Mozart, perché nella santità dell’artista carpiva un sapore di eternità, che immediatamente traduceva per i suoi lettori. Ad Acocella si imputava l’uso di eccessive iperboli, si diceva di lei che non conoscesse eufemismi, ma la sua scelta stilistica non aveva niente di casuale, perché ne rendeva la scrittura quasi palpabile.

  

Diceva, per postura polemica, di detestare gli intellettuali perché non riuscivano a tracciare la vita morale contenuta nella danza. Agiva wildianamente da critico-artista: nel rispetto della creatività che le veniva offerta, metteva al centro le persone dietro al prodotto culturale, e ne accompagnava la fruizione su numerosi livelli di complessità. Quando scriveva, scioglieva e ricompattava, prendeva e redistribuiva in accordo con il suo tempo: in uno dei suoi ultimi articoli, con Dolly Parton e le patatine fritte introduceva una lettura femminista di Geoffrey Chaucer.

 

Instancabile e vorace, si prendeva il tempo dello studio necessario al commento di qualità, che predisponeva con ironia, per destare dal torpore di una lettura passiva. Si era guadagnata una fama tale da poter determinare il successo o l’insuccesso di coreografi e danzatori emergenti, potere che non esercitò mai. Di Acocella restano le metafore pregnanti e vicine all’immaginario del lettore, le pause nella sintassi per rendere agevole la lettura, l’insaziabile curiosità. E un monito deontologico per la nostra critica culturale, spesso nel pantano della promozione e della spartizione dei sempre più miseri lotti di finanziamento alla cultura. Chissà come reagirebbe a essere definita l’intellettuale che innegabilmente è stata, ma di certo si merita il riconoscimento di aver agito come il critico dovrebbe fare: la critica come sguardo e non come giudizio, la critica come coscienza della società e della politica. Il critico come tessuto connettivo tra pubblici, artisti, persone. 

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