L'isola di Li Galli - foto da travelamalficoast.it

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Li Galli, l'isola della danza

Marinella Guatterini

Nell’arcipelago, oggi al centro di una disputa giudiziaria, trovavano rifugio Léonide Massine e Nureyev. Ispirati dalle sirene

Fiabe e leggende di Natale e dintorni finiscono tutte bene, o quasi. C’è dunque da sperare che il racconto persino ammantato di mito che sto per narrare ammicchi almeno in futuro a un roseo happy ending. Certo è curioso che una storia di fine anno abbia inizio non sulla neve ma sul mare, e vanti come eroe la Guardia di finanza navale inviata dalla procura di Salerno a confiscare preventivamente un ormeggio, resort di lusso, palestre, bistrot, strutture di collegamento e persino una chiesetta. Tutto a quanto pare abusivamente costruito su di un arcipelago tanto somigliante, da lontano, a un ammasso di scogli ben poco distanziati tra di loro e dall’amena Positano. Peccato si tratti del famoso aggregato insulare de Li Galli, già abitato dai romani nella sua isola maggiore a forma di falce o di delfino e con una testa di gallo – ecco il nome dato all’intero comprensorio – da anni terreno di aspre battaglie giudiziarie. 

Tra lo stato e i privati si è, infatti, inserita la storia. Una secolare memoria d’arte, di ballerini e coreografi molto famosi avrebbe legittimato la sola regione Campania all’acquisto dell’arcipelago dall’ultimo proprietario: il celebre divo Rudolf Nureyev. È certo e scritto che egli avrebbe voluto un invidiabile e unico sito archeologico/naturalistico della danza, attrazione di un turismo pubblico e internazionale. Non andò così. Nel 1998, dopo cinque anni dalla prematura scomparsa della star del balletto, le tre isole che tra l’altro incrociano pure lo sguardo dei Faraglioni di Capri, finirono tra i possedimenti dell’imprenditore Giovanni Russo e di un suo collega. Fu la Fondazione Nureyev a consegnare a una società del Liechtenstein, la Ballet Monde Ag, la gestione dell’eredità del divo e dunque la vendita de Li Galli protetta da un vincolo archeologico dalla soprintendenza al patrimonio paesaggistico relativo al diritto di prelazione e cioè all’acquisto al prezzo fissato dal venditore. Si aprì un processo e la pubblica accusa sostenne che Russo e collega avrebbero acquisito con illeciti raggiri il Gallo Lungo, La Rotonda e Dei Briganti a nord della Rotonda – questo il nome dei tre isolotti – a un prezzo diverso da quello pattuito secondo la legge. Verdetto sospeso. Innegabile, invece, nel 2003 l’intervento, per altro alquanto tardivo, della regione Campania che stanziò 3,4 milioni di dollari (la cifra compare nell’atto di compravendita contestato) per aprire le porte al godimento pubblico di un bene non della Campania ma dello stato.   

Interpellato alcuni mesi orsono, Giovanni Russo, ormai rimasto pure unico proprietario de Li Galli, negò di lucrare su questo paradiso terrestre, di chiedere cifre stellari perché non possidente di alcun resort super deluxe. Russo ha pure confutato l’accusa di organizzare matrimoni ed eventi mondani; è un uomo cortese ma in fuga da domande a cui ora dovrà dare risposte certe, di sicuro in merito all’evasione delle tasse. Diceva di amare la danza, di aprire il Gallo Lungo a intere serate di balletto – in realtà secondo le indicazioni della Fondazione Nureyev, avrebbe dovuto farlo ogni anno – e di ospitare amici ballerini “in famiglia”: da Roberto Bolle ai nominati dell’antico “Premio Positano”. Quest’anno, tra i non molti ospiti per un giorno, spiccava Nicoletta Manni, la futura étoile scaligera. L’imprenditore assicurava, inoltre, di abitare nella torre saracena dove restano le immagini preziose della storia coreutica dell’isola, e di abbandonarla alla fine dell’estate per trascorrere il resto dei mesi a Londra.  

Qualcuno, durante la nostra ricerca, riuscì persino a rasserenarci, sostenendo che la cura riservata da Russo ai 400 metri di scogli, vegetazione e flora del Gallo Lungo piegati dal sudore e dall’estro del coreografo e ballerino Léonide Massine, il suo primo proprietario, sarebbe stata forse assai migliore di quanto avrebbe fatto o farebbe oggi lo stato. Nulla è stato toccato, ma molto è stato distrutto o costruito con un gusto discutibile, come quella cappellina bianca posta sulla punta estrema del Gallo Lungo e ora preventivamente requisita. È nello stile greco-mediterraneo delle isole elleniche e con il fascino selvaggio e ruspante, coltivato a spianate di rosmarino da Massine, non c’entra proprio nulla. Questa, tuttavia, è una quisquilia rispetto a quanto è stato contestato all’imprenditore proprietario: lasciamo che si costruisca una granitica difesa, mentre noi torniamo a questo sancta sanctorum della danza. 

Secoli di abbandono da parte degli abitanti romani e leggende di pescatori della costa amalfitana non scalfirono lo stupore di un ballerino abituato a steppe, ghiacci e fiocchi di neve di fronte a scogli ma anche intricati grovigli di mirto, ginestra e ginepro: un paradiso di profumi, sole e blu cobalto. Nel 1917, Léonide Massine, il danzatore in questione, non aveva un soldo ma, mentre lasciava l’isola nell’iridescente scia del tramonto, in compagnia di Pablo Picasso, pittore allora sconosciuto ma scenografo di Parade, il suo primo, irriverente, balletto, subito s’innamorò di quell’isoletta e decise che sarebbe stata sua. Era capitato sul Gallo Lungo non certo da Mosca, dove era nato nel 1896, ma all’indomani di alcune recite al Teatro San Carlo di Napoli con i Ballets Russes di Sergej Djagilev, di cui era diventato il nuovo pupillo dopo la cacciata del fedifrago Vaslav Nijinskij sposatosi con la ballerina e nobildonna ungherese Romola de Pulszky. Danzatore soprattutto demi character – cioè votato a un folclore innervato di balletto e di grande fascino, era stato scoperto dal talent-scout Djagilev al Teatro Bolshoi quando ancora si chiamava Leonid Fedorovich Mjasin. Una volta giunto a Parigi francesizzò il suo nome nel più facile Massine e fu subito iniziato all’arte, alla pittura e alla scultura per essere trasformato molto in fretta in coreografo. Allo scopo anche le gite di piacere fungevano da ricostituenti: Léonide ritornò sulla costiera amalfitana nel 1922 in un giorno d’estate e giunto a Li Galli s’arrampicò sulla scogliera  rovente sino alla vecchia torre saracena. 

Sul breve pianoro si lasciò rapire in una spirale di emozioni mai  provate, stordito  dal  profondo silenzio del luogo dove il tempo sembrava immobile e la vita sospesa in uno stato di beatitudine. Era quello il posto che, inconsapevole, aveva sempre cercato per ricaricare la sua fantasia di artista e ritemprare le sue forze di giramondo. Nel 1922 vi era ritornato in compagnia del compatriota Mikhail Nikolaevich Semenov, prima artista a Roma e poi pescatore a Positano; aveva finalmente in tasca le poco più di 200 lire necessarie ad acquistare gli scogli dei suoi sogni dalla famiglia locale dei Parlato, che vi si recava solo per la caccia delle quaglie in primavera. Massine lo afferma in “My Life in Ballet”, l’autobiografia pubblicata a Londra nel 1968 e ripresa e ampliata in italiano da Lorena Coppola nel 2007 per la Fondazione napoletana Léonide Massine, nata nel 1995 su iniziativa della stessa Coppola che ne è tuttora presidente.

Solo due anni dopo, nel 1924, causa tournée e lavoro, il russoballerino com’era chiamato dai pescatori, tornò a Li Galli con una squadra di lavoranti. Ridisegnò sentieri, rialzò le mura dei terrazzamenti, sistemò la vigna, interrò un frutteto. Sempre in lotta con il vento impetuoso e corrosivo, piantò e ripiantò dei pini che volevano restare svogliati. Caparbio e instancabile manovale, intendeva trasformare la sua isola in un luogo di vacanza ma anche di lavoro. Sulla spianata davanti  all’uscio dell’antico abituro sistemò un piccolo campo di rosmarino tagliato a metà dal sentiero che porta alla terrazza di ponente. Nel 1937 fece riattare la vecchia casa, la Villa Grande, ricordata come Villa Massinem e ristrutturata vox populi da Le Corbusier. Ne dubita Antonino De Angelis, in “Contatti - Persone e personaggi nella terra delle Sirene” (edizioni La Conchiglia, 2003) quando scrive: “Forse l’amico architetto gli diede qualche consiglio; disegnò la più confortevole disposizione degli ambienti, ma è pura fantasia popolare attribuirne la paternità; anche perché al resto, alla vera costruzione pensò mastro Raffaele Lucibello”. Esperto di tradizioni locali, De Angelis non si attarda a narrare l’andirivieni dall’isola dei più bei nomi dell’intellighenzia artistica legata ai Ballets Russes: Djagilev, Stravinskij, Cocteau, Picasso, Chanel come attestano le immagini fotografiche custodite nella torre angioino-saracena. Preferisce ricostruire il rapporto vero e dal finale amaro, instauratosi tra il  russoballerino carismatico quanto cinico e il melanconico Ndulino (alias Antonino Iaccarino).

Custode dell’isola, costui parlava con le sirene e intrecciava con rami frondosi di carrubo o leccio i bozzoli dentro i quali il suo padrone amava creare, sulla punta estrema del Gallo Lungo, al riparo dai rumori di casa e dal chiasso dei numerosi figli avuti da tre mogli (la quarta l’avrebbe sposata un anno prima di morire in Germania, nel 1979). Non era molto loquace con il padrone, e questi lo ricambiava; i due s’intendevano a sguardi e rade parole. Anche con gli ospiti Ndulino si esprimeva ben poco, preferiva sottrarsi alla loro curiosità perché non ne comprendeva la lingua. A Li Galli si parlava russo e francese, qualche volta  tedesco. Era la signora Tatiana (terza moglie di Léonide) a chiamarlo fra la comitiva degli amici cui, dopo breve insistenza e molte lusinghe, il custode raccontava del suo incontro con le sirene: “Un giorno me ne stavo per i fatti miei”, attaccava con finta ritrosia, “quando una voce mi chiamò,  prima  doce  doce  poi  sempre più insistente. Ndulì vieni,  vieni Ndulì!  stò cca, stò cca!”. Durante gli anni della guerra il piccolo guardiano divenne l’assoluto padrone dell’isola. Il  russoballerino  per  molto tempo  restò  lontano  dall’Italia. Antonino lo informava con lunghe lettere che affidava a  Semenov perché le spedisse. Era l’unico tramite tra i due, ma dal gelido  Massine non ebbe mai soddisfazioni, né ringraziamenti. Eppure quando tornò, alla fine degli anni 40, ormai anche naturalizzato americano, per Ndulino fu una festa

Il guardiano sapeva che l’autore del Cappello a tre punte (1919) e di Pulcinella (1920) ma anche del secondo Sacre du printemps (1920) – coreografie tra le più famose dei Ballets Russes – amava costruire le sue creazioni a Li Galli. Gli preparava un angolino fra gli alberi sulla punta estrema del Gallo Lungo là dove il maestro preferiva lavorare. Un piccolo tavolino doveva essere sistemato nella frescura di un carrubo e di un leccio. Incrociando i frondosi rami, quasi intrecciandoli, Antonino costruiva una specie di bozzolo, dove Massine, ogni mattina, fatto il giro  dell’isola, si fermava a lavorare per l’intera giornata. Solo Ndulino e Mademoiselle, spettatori privilegiati di quel teatro esclusivo, potevano  raggiungerlo  nell’isolamento:  il guardiano per alimentarlo di bevande fresche e la segretaria per rifornirlo del materiale di scrittura e raccogliere i testi da riordinare. In quel guscio ideò le coreografie per il film Scarpette Rosse (1948), titolo tornato di gran moda oggi con il Balletto di Toscana e Philippe Kratz, il suo nuovo coreografo. Su quel tavolo, nel 1952, Massine s’impegnò un’intera estate per Carosello Napoletano, la pellicola in cui fu anche attore e ballerino. Da quel bozzolo, proprio come farfalle, le sue creature spiccavano il volo sulle punte di eteree danzatrici. I balletti ideati a Li Galli muovevano i primi passi  sulla terrazza di ponente; lo sfondo era la costiera. Uno scenario mozzafiato, tuttavia il sogno dell’artista era di riuscire a costruire, a ridosso degli scogli della praja, un piccolo anfiteatro: le prove sarebbero state distese in uno spazio più ampio e già scenico. Quel sogno fu venduto a Rudolf Nureyev nel 1989, ma non realizzato

Il grande ballerino che già trascorreva brevi periodi di riposo sulla costa amalfitana – a Capo di Sorrento aveva in comodato dai Cavalieri di Malta “Il Sorito”, per dieci anni dimora di Maksim Gor’kij – non fece che apportare mutamenti alla Villa Grande. Pare desiderasse aprire una sua scuola di balletto, perciò arricchì la sala da ballo con specchi e sbarre. Aggiunse finestre e mattonelle policrome fatte venire da Turchia e Tunisia e se qualcuno osava eccepire che sarebbe stato meglio conservare i tavolini e le sedie in ceramica, disegnati dallo stesso Massine, lui giurava che ogni cambiamento arabeggiante (la religione dei genitori era musulmana) rendeva omaggio all’amatissima madre e nessuno lo contraddiceva più. Sull’isola tornarono intellettuali, artisti, grandi russi. Vi approdò anche Vaclav Havel, allora presidente della Cecoslovacchia, e Nureyev lo accolse tutto vestito di verde, con l’immancabile berretto in testa, quella volta a là Peter Pan. Purtroppo il mare ruggente che tanto amava in specie quando scorrazzava nudo sulla sua moto acquatica attorno all’arcipelago, e le asprigne bellezze dell’isola sulla quale avrebbe desiderato sedimentare pure la sua seconda carriera, quella di direttore d’orchestra (nel 1991 Nureyev debuttò in questa veste anche alla Villa Rufolo di Ravello), non bastarono a rallentare la rincorsa del male che lo divorò prima del compimento dei cinquantacinque anni. Le immagini in video del declino fisico del “Tartaro volante” a Li Galli sono conservate: in costume da bagno, il corpo riarso dal sole è di una malinconia assai meno folle e vitale di quella del custode Ndulino che pure era fuggito sull’isola per lenire le sofferenze di una morte d’amore e lì era scomparso forse preda delle sue fantasmatiche ispiratrici. Ma perché tanta insistenza sulle sirene?

Battuto da corsari e briganti in epoche assai più vicine a noi, il lembo marino di cui stiamo scrivendo sarebbe stato il luogo, o uno dei recessi in cui vivevano proprio le sirene. Ammaliavano i marinai di passaggio per farli naufragare contro gli scogli. La mitologia narra di due navi scampate, proprio a Li Galli, a un funesto destino: quella di Ulisse nell’Odissea e la forse meno nota degli Argonauti, salvata da Orfeo e dal suono della sua lira in grado di surclassare l’affascinante e ipnotico canto delle sirene, tra l’altro rose dall’umiliazione della sconfitta al punto di buttarsi in mare per  divenire sassi. L’ignoto dettaglio ci giunge da un culto greco arcaico e non romano. Lo ricordano i documenti pervenuti da Strabone (I sec. a. C.) e Stratone di Sardi nel 120 d. C. già concentrati su Sirenai e Sirenusai, ossia sirene e loro dimore, e sulla dedizione religiosa consigliata ai marinai per scongiurare i pericoli di tempeste impetuose e correnti devastanti provocate da siffatte creature. Non importa se le adescatrici dal dolce canto non avevano forma di bellissima donna-pesce: anche i romani de Li Galli sapevano che la seduzione gioca su ciò che resta eternamente segreto  e in essa è insito il “pathos della distanza”.

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