(foto Ansa)

la riflessione

L'impressione è che la politica culturale “di destra” non si sappia nemmeno come farla

Alberto Mattioli

Cosa c’è di più identitario, iper italiano e super nazionale dell'opera lirica? Perché non partire da qui se si vuole provare a costruire una nuova egemonia culturale?

Gran baccano mediatico al “Don Carlo” della prima della Scala, anzi anche più del consueto perché il solito noto (a noi habitué, chiaro) Marco Vizzardelli strilla dal loggione “Viva l’Italia antifascista!”, la Digos gli chiede i documenti e viene così promosso sul campo nuova icona dell’Italia democratica e antifascista con pezzi pensosi e penosi sui giornali d’opposizione ed editoriali uguali e contrari su quelli governativi (morale: il senso del ridicolo è sparito da destra a sinistra). Rissa purtroppo solo verbale fra il sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi, e il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, alla “Turandot” del San Carlo, a proposito della citazione o meno del Massimo napoletano nel dossier governativo sul canto lirico patrimonio dell’Unesco. E poi: loggioni che fischiano, gazzarre in teatro ed effervescenza sui social. Pare che stiamo tornando ai bei tempi dell’Ottocento: “Tutte le classi della società s’interessano a ciò che avviene alla Scala. Dal gran signore che va per sbadigliare magnificamente nei primi palchi fino all’ultimo garzone dell’ultima bottega di droghiere, che di tanto in tanto, pagando 75 centesimi, s’infila nel loggione, tutti prendono partito pro o contro la primadonna, il tenore, il basso o il maestro; è come un affare nazionale che occupa tutti gli spiriti e fa trattenere il fiato all’immaginazione di ognuno”: questo è Liszt nel maggio 1838, reportage per la Revue musicale et gazette de Paris (al solito, solo gli stranieri sanno davvero raccontare l’Italia).

 

In effetti, sarebbe troppo bello che fosse davvero così. Però, già considerato un vetusto intrattenimento per anziane sciure in paletot con il collo di pelliccia e argomento di conversazione buono al massimo in salotti pieni di buone cose di pessimo gusto, fra Loreto impagliato e il busto di Zeffirelli, l’opera lirica mostra un’insospettata vitalità. Tanto che potrebbe costituire un’opportunità per il governo. Finora, a parte occupare un po’ di posti e promuovere mostre sugli autori della bibliotechina governativa, del resto pochi, una politica culturale “di destra” non si è vista, anzi l’impressione è che non solo non si sappia bene cosa fare ma nemmeno come farlo. Perché non partire allora da qui: in fin dei conti, cosa c’è di più identitario, iper italiano e super nazionale (benché non più nazionalpopolare, ahinoi) del paese del melodramma di santa e barilliana memoria? Tanto più che in materia il governo, per ora, non si sta muovendo male. Certo, si era iniziato malissimo, vedi l’affaire Lissner-Fuortes, dando l’impressione di considerare il venerabile San Carlo un premio di consolazione per manager di cui ci si vuole sbarazzare. E dobbiamo tuttora sorbirci le quotidiane intemperanze di quella comare di Sgarbi, che a Sant’Ambroeus non c’era ma ha lo stesso sentenziato da remoto che era bellissimo perché di regia “tradizionale” (regia, in realtà, non pervenuta come le temperature di Isernia), e che era “memorabile” soprattutto il balletto che, trattandosi del  “Don Carlo” e non del  “Don Carlos”, alla Scala non c’era. Ma l’altro sottosegretario, appunto Mazzi, che dei teatri lirica ha la delega, si sta invece muovendo bene e soprattutto in silenzio, e forse riuscirà a chiudere il contratto collettivo delle fondazioni liriche. 

 

Adesso arriva la madre di tutte le battaglie, cioè la scelta del sovrintendente che dal 2025 dovrà sostituire Dominique Meyer alla Scala: partita delicatissima perché oltretutto a Milano comanda il Pd e l’impressione generale e bipartisan è che nessuno sappia bene che pesci prendere. In ogni caso, Sangiuliano and friends ci pensino: se riescono a superare l’ansia di piantare bandierine per soddisfare gli appetiti di qualche fedele e a schivare i riflessi condizionati di un provincialismo autarchico e vernacolo, questo può essere il campo dove provare a realizzare una vera politica culturale di destra. Che per ora, tanto per restare al melodramma, è come l’araba fenice: “che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa”.

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