il commento

La prima "statica" della Scala: una recensione del Don Carlo

Alberto Mattioli

Lluís Pasqual si è limitato a organizzare entrate e uscite, in un vuoto pneumatico di idee o anche solo di trovate. Un concerto in costume, e nemmeno tanto bello da vedere

Impressioni dopo il primo atto della prima di parata (ma avendo visto anche la “primina” under 30, il cosiddetto “turno acne”): è il Don Carlo di Riccardo Chailly. Il direttore musicale della Scala inventa un suono compatto, denso, profondo, perfino doloroso ma che resta sempre trasparente, con una perfetta differenziazione dei piani sonori. Più tragedia privata che pubblica, più dramma di individui che di popolo, è un Don Carlo di grande fascino, “abbadiano” di impianto ma personalissimo, evidentemente studiato e meditato a fondo ma senza l’effetto refrigerante che producono le letture troppo analitiche. Orchestra e Coro superlativi. Peccato che il teatro, grande teatro, che si fa in buca non abbia un corrispettivo in scena, dove Lluís Pasqual, uno di quei “revenants”, come li avrebbe chiamati Vittorio Emanuele III, che Chailly si ostina a scritturare, si limita in pratica a organizzare entrate e uscite, in un vuoto pneumatico di idee o anche solo di trovate. Mai vista una prima della Scala così statica: un concerto in costume, e nemmeno tanto bello da vedere.

 

Allora davvero ridateci i registi “tradizionali” veri, che almeno i tableaux vivants li sapevano fare. Ma qui, è chiaro, impera la folle paura di tutto e di tutti che hanno alla Scala, per cui le regie “moderne” sono tabù, che non si sconcertino i turisti o i reperti assiro-milanesi, costringendoli magari a pensare. Certo che qui non c’è nemmeno la regia, moderna o tradizionale che sia. E nel Don Carlo, poi, che di tutto Verdi è forse l’opera più “politica” e contemporanea, un trattato di anatomia patologica del potere. Peccato doppio perché la compagnia è buona, il solito usato sicuro della Scala.

 

Ad Anna Netrebko non si può dire nulla se non farle i complimenti: un fiume di voce a tutte le altezze, piani e pianissimi uno più bello dell’altro, interpretazione sempre centrata. Anche Francesco Meli è solidissimo, e gli manca solo un pizzico di nevrosi in più per essere l’Infante ideale. Luca Salsi e Michele Pertusi (ieri sera forse un po’ stanco), rispettivamente Posa e Filippo, non soltanto cantano da padreterni ma hanno anche quel che distingue i verdiani veri da quelli di plastica: l’accento. Il loro duetto è il vertice della serata. Elina Garanca è un’Eboli insolitamente affascinante, ma per il loggionista che è in noi manca un po’ di “peso”: non è un’Ebolina, però dei centri un po’ più corposi ci vorrebbero.

 

Quanto al Grande Inquisitore, chi alla primina ha ascoltato l’ex titolare poi provvidenzialmente ammalatosi constaterebbe un miglioramento anche se la parte la cantassi io; promosso da Frate a Inquisitore, Jongmin Park ha potuto esibire un solido vocione. Per ora, applausi: salvo incidenti sempre possibili, è una prima che va sul sicuro. Ah, dimenticavo: Don Carlo “di Milano”, quindi quattro atti e in italiano. Per il Don Carlos parigino, cinque atti, in francese e accessoriato di balletto, che alla Scala non hanno mai fatto, sarà per un’altra volta. Magari con uno spettacolo vero.

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