magazine

Branciaroli porta in teatro “Il caso Kaufmann”, la metafora del male

Camilla Baresani

Un ebreo è condannato a morte “per inquinamento razziale”. Il primo sintomo è l’indifferenza, quel lavarsene le mani del destino degli altri. Il futuro di Israele e l’incubo dell’atomica

Franco Branciaroli, lei vuole salvare i delfini? “No”. Gli squali? “Li ammazzerei tutti”. I bambini poveri? “E come? Me lo spieghi lei, mandando una cifra ogni tanto?”. Mi dica, è almeno pacifista? “No, no, non ci credo. Mi piacerebbe, ma non funziona”. Così, in un batter d’occhio, abbiamo sgombrato il campo dai luoghi comuni tanto cari al mondo dello spettacolo. Tra poco più di un’ora, questo mattatore che da più di 50 anni seguiamo in teatro, al cinema e persino nelle serie televisive, andrà nuovamente in scena. 

Siamo nel minuscolo camerino del Teatro Parioli di Roma. Appesi in una nicchia, una camicia e un anonimo abito grigio. Sono i costumi di scena del Caso Kaufmann. Con la regia di Piero Maccarinelli e il copione di Giovanni Grasso, che è anche autore dell’omonimo romanzo ispirato a una storia realmente accaduta, Branciaroli interpreta l’ebreo tedesco Leo Kaufmann, condannato a morte per inquinamento razziale nel 1941. La scena si svolge a Monaco di Baviera, nel carcere di Stadelheim. La Corte di Norimberga lo ha ritenuto responsabile di una relazione sessuale con la giovane figlia di un amico ariano, Irene, che sulla scena è Viola Graziosi. Irene nega, Kaufmann nega, non esistono prove – solo illazioni di delatori – ma tant’è, la condanna dell’agiato vedovo, un ex commerciante, sta per essere eseguita. Manca poco alle deportazioni di massa, all’Olocausto, ma Grasso ha scelto di raccontare il clima di razzismo e violenze antiebraiche che lo ha preceduto, così ben illustrato nel famoso saggio di William Sheridan, Come si diventa nazisti. “Il primo sintomo è l’indifferenza”, dice Sheridan, quel lavarsene le mani del destino degli altri, che magari fino a poco prima erano i nostri cari vicini di casa.

 

La pièce coglie l’attimo o, come diceva Walter Benjamin, coglie l’ora della leggibilità, cioè risuona con particolare veemenza nel cuore degli spettatori che ripercorrono i germi dell’antisemitismo e della banalità del male, quest’ultima rappresentata dai delatori di quartiere, dalla complicità degli uomini comuni alla violenza del potere nazista. Cittadini poi pronti all’autoassoluzione alla caduta del nazismo, nella Germania democratica del Dopoguerra. Parte non secondaria della storia è un sottile gioco sul tabù del desiderio che può sfiorare, benché irrealizzato, una giovane e un vecchio (che poi ‘sto povero vecchio è un sessantenne, quindi un semigiovane pensando all’ottantacinquenne Giuliano Amato, scelto per presiedere l’innovativa Commissione algoritmi).  Se a Brescia, al Teatro Sociale, il debutto nazionale del Caso Kaufmann ha visto presente la sindaca Laura Castelletti, il presidente della Biennale Roberto Cicutto e il banchiere Giovanni Bazoli con la figlia Francesca, presidente di Brescia Musei, a Roma, per il trio Branciaroli/Maccarinelli/Grasso c’è stato un immane spargimento di alte autorità, dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al rabbino capo della comunità ebraica, Riccardo Di Segni, e poi frotte di ministri, sottosegretari, produttori e via snocciolando. 

 

Ma intanto, prima che Branciaroli vada in scena e le considerazioni di Leo Kaufmann, amare e anche ironiche, commuovano il pubblico, siamo qui, nel camerino che sa di umido, a tu per tu con la voce e i pensieri del grande attore. Chiediamo cosa pensa della guerra scatenata da Hamas contro Israele. “Se dovesse mettersi male, Israele, che è grande quanto il Piemonte, sarà la prima nazione a usare la bomba atomica. E’ ovvio, se tutti i paesi intorno vogliono eliminarli, è l’unica cosa che hanno in più rispetto agli altri. In Stella Maris di Cormac McCarthy c’è proprio una considerazione su questo argomento: l’atomica è come la bancarotta, più la rimandi peggio sarà. Come dire: più sposti in avanti il giorno in cui la userai, più sarà peggio, perché a quel punto l’avranno in tanti paesi. Ripeto, sono ottimista, però se dovessero strangolare il popolo israeliano… Hanno richiamato 300 mila riservisti, persone strappate al lavoro, alle famiglie, agli sport. Sono tutti ingegneri, manager, non è che possono stare sei mesi in guerra. Da un lato c’è lo spauracchio Stella Maris e dall’altro c’è la concretezza di gente che ormai ha un lavoro, una vita, ma chi glielo fa fare? Israele deve conservare il vantaggio acquisito, altrimenti li cacciano in mare”. Branciaroli, ci dica, lei per caso è meloniano? “No, io…”. Ci pensa un secondo. “Come si dice a teatro, non sono napoletano, non sono di sinistra e non sono frocio, il che ha sempre posto dei problemi nel mondo dello spettacolo”. Che faccio, scrivo frocio o gay? “Frocio, boh”. Insomma, il problema lessicale non lo coinvolge granché. “Alcune cose sono state fatte, hanno picchiato sul cinema, sulla televisione, sull’arte, ma sul teatro niente. Forse a destra lo considerano una cosa talmente piccola che non perdono tempo a metterci le mani. Né si può dire che non abbiano gli uomini, perché bastano due telefonate e si cambia anche bandiera, dalla sinistra si passa velocemente alla destra. Io temo proprio che non gliene freghi niente”. Scusi, ma lei allora in che quota si riconosce? In Comunione e Liberazione? “Ma no, ma no, ormai anche quella è finita. Il mio rapporto con Cl era dovuto a Testori e di conseguenza a Giussani. Mi hanno accolto anche se avevo fatto i film di Brass. Addirittura, Testori ha scritto per me le Branciatrilogie. Ormai non so più nemmeno se Cl esiste, perché c’era quando entrava nella politica, ma, senza corrompersi con la politica, un movimento solo religioso scompare”. Essere stato identificato come attore nell’orbita di Cl ha avuto delle conseguenze? “Certamente l’ho pagata, perché l’Italia è un paese decentrato, pieno di piccoli teatri di provincia, e i teatri hanno dei direttori messi dai politici, e nessuno ti diceva no, non ti vogliamo perché non sei di sinistra. Accampavano le solite scuse, tipo quella del calendario già pieno. Che poi non mi hanno impedito di fare carriera: c’è sempre una valutazione del merito, ci sono direttori che pur essendo di sinistra fanno come gli pare. Per dire: Ronconi se n’è sempre fregato di cosa io pensassi”. 

 

A differenza dell’eroe della Versione di Barney, uno dei suoi romanzi preferiti, Branciaroli sa tutto, legge tutto, non incespica sui nomi. Quanti copioni tiene a mente? “Solo uno, e dopo 20 giorni che non lo recito scompare, devo memorizzarlo da capo. Ora sto imparando I ragazzi irresistibili, la commedia di Neil Simon che interpreto con Umberto Orsini”. Chissà se tra questi due grandi attori c’è competizione, o quantomeno rivalità. “Tra attori capita, ma noi abbiamo iniziato a lavorare insieme già nel 1989 con il Besucher di Botho Strauss, regia di Ronconi. Fin dall’inizio ho detto a Umberto: ‘Guarda che io ho il vizio di cambiare le intonazioni. Non prendertela. Non è un modo per fregarti. Gli attori lo fanno! Ma io no’”. Dev’essere come se un ciclista che pedala in gruppo frenasse o accelerasse all’improvviso. “Per me, è il divertimento più grande. Recitare è cambiare, trovare l’intonazione del giorno”. Nel chiuso del camerino, Branciaroli improvvisamente pronuncia più volte, in modo sempre diverso: “Sei stupida, veramente stupida”. Anche se mi sento come se lo dicesse a me, forse è una battuta di Kaufmann, quando l’anziano ebreo si rivolge a Irene, la giovane ariana che non vuole sposare il ragazzo pure ariano con cui ha una storiella, cosa che allontanerebbe le dicerie sulla loro presunta scandalosa relazione interrazziale. “L’esempio spiega cos’è la recitazione, lo scavo che si fa nei significati esprimendoli nei modi più redditizi con meno sgargio possibile. L’intonazione giusta magari la si trova dopo sei o sette volte”. I registi si arrabbiano, con tutto questo cambiare intonazione? Chissà gli scontri di ego: “Ma no. Nel teatro il regista non ha alcun potere. Al cinema è il padrone, decide il montaggio e fa quel che vuole, tu pensi agli spaghetti e lui monta una battuta dove dici ‘Ti amo’. Invece, in teatro alle nove di sera scompare, non c’è più. Tu sali sul palco e sei libero. Se io stasera impazzissi, nessuno mi potrebbe fermare, come succederebbe sul set. In teatro, il regista conta fino al giorno del debutto. Dopo, l’attore diventa il padrone assoluto. Certo, non è che può cambiare il testo, ma le intonazioni sì. Come diceva Ronconi, la finzione è il cinema, non il teatro. Quando vai a vedere una cosa stampata sul muro, quella è finzione. Qui invece c’è la verità. Qui non ci sono le ombre sul muro. Qui, se non mi sento bene, si vede”. 

 

Però lei ha lavorato molto al cinema e anche nelle serie televisive. Non ha fatto solo i film di Tinto Brass. “All’inizio della mia carriera, che è stato abbastanza folgorante, potevo decidere. Per fare il cinema basta andare a Roma, non è che fai le tournée di sei mesi, come a teatro. Ma sentivo che era un mezzo dove non potevo essere bravo come a teatro, per cui non l’ho coltivato. Quando ho lavorato con Antonioni, mi spiegava,” e qui prosegue con la voce soffocata di Antonioni, “‘I grandi attori sono solo anglosassoni, perché noi latini ci autogiudichiamo, abbiamo un senso di inadeguatezza che ci accompagna, mentre l’americano ha quell’ingenuità che passa dalla vita al set, lui non si guarda, lui va’”. Branciaroli lascia il tono sfiatato del povero Antonioni e riprende la propria voce. “Noi ci vediamo, e vedersi rende impacciati. Infatti, Antonioni usava soprattutto attori stranieri. Invece il miglior cinema italiano non è altro che teatro filmato. Tognazzi, Manfredi, sono attori che arrivavano dal teatro, o anche dall’avanspettacolo. Pensi che avevo i ricci, Antonioni me li stirò tutti”. Di nuovo sfiatato: “‘I ricci sono retorici, sembri un po’ un vasellame etrusco’. Aveva ragione, andavano bene per La ricotta di Pasolini. Ogni tre giorni arrivava un costosissimo parrucchiere di Roma che mi stirava i capelli, e per mantenerli lisci più a lungo dormivo come un egizio imbalsamato”. 

 

L’attore teatrale superlativo, spiega Branciaroli, quello più dotato, lo si vede quando gli affidano la parte del re, la più importante. Mica tutti possono interpretarlo. “La democrazia uccide il teatro perché nella democrazia la parola non è azione, va mediata. Se il re dice ‘Uccidetelo’, ti uccidono, la sua parola è azione. In democrazia, invece, bisogna fare un processo, c’è la difesa, c’è l’accusa, e allora arriva il teatro borghese delle chiacchiere”. Dunque, Harold Pinter non è tra i suoi drammaturghi preferiti? “Il grande teatro si divide così: c’è la tragedia greca, che è insuperabile, è la più alta forma artistica umana, e però non è uno scontro di personaggi ma di funzioni e di pensieri. I caratteri non erano ancora stati inventati. Poi arriva Shakespeare, il più eccelso drammaturgo moderno, e inventa il personaggio, cioè uno grasso o magro, con una determinata psicologia. Crea uomini che ancora non ci sono. Prendiamo Amleto, la difficoltà di interpretarlo era perché Shakespeare aveva creato un uomo che ci sarà, senza attenersi a nessun modello. Nell’arco di 36 testi ha fatto come Balzac, ha praticamente fotografato il genere umano, e metà dei tipi a cui ha dato vita non c’erano ancora stati, sarebbero venuti dopo. Ecco perché è insuperabile. La disgrazia è doverlo recitare in italiano”. 

 

Ma lei, questo sacro fuoco della recitazione, se l’è fatto venire da piccolo, magari perché sua madre la portava a teatro? “Macché, la mia famiglia era passata dalla povertà del sottoproletariato al benessere, e chi non ha provato questo transito bellissimo dalla superpovertà allo star bene non può capirlo. Avevo abbandonato l’università e mio padre, neobenestante per aver inventato il metodo per far montare la panna prodotta con latte pastorizzato, mi propose di fare un anno a Parigi, uno a Londra, uno a Berlino, per imparare le lingue”. Così, a 20 anni Branciaroli prende casa a Montmartre, ma non studia il francese e nemmeno si diverte. Decide di tornare a Torino. “Ho buttato via la Londra del ’68”. Arriva in treno che è quasi mezzanotte, prende un taxi, vede che il bar di piazza Gran Madre dove andava con gli amici è aperto e scende con la valigia. “‘Ce l’ho nel culo perché adesso devo fare il servizio militare’, dico agli amici. Una ragazza, un’attrice radiofonica figlia del calciatore Ossola, mi sente e dice: ‘Ma perché? Sei bellino, a Milano c’è una scuola di recitazione che dura tre anni e vale come rinvio. Posso prepararti’. E io: ‘Ma dai, cosa faccio poi, l’attore?’. Così mi metto a studiare recitazione con lei, ma la notte che precede il mio esame si suicida. Scopro che ci aveva già provato, forse come atto dimostrativo nei confronti del marito. Ma quella volta non si risveglia”. Subito si pensa al suicidio messo in scena e involontariamente portato a termine da Guido Speier in La coscienza di Zeno. 

 

Il giovane Branciaroli parte per Milano così scosso che deve far guidare l’auto a un amico. Fa l’esame di ammissione alla scuola del Piccolo e viene accettato da Paolo Grassi, forse per solidarietà: ha infatti la erre moscia, così come Grassi, un difetto correggibile. Per giunta fa una gaffe micidiale. Gli dicono: “Lei conosce naturalmente la Ginzburg”. Lui non la conosce ma comunque capisce Ginsberg, e si mette a vantarsi, lo cita, e quelli non conoscono Ginsberg ma vogliono la Ginzburg, e insomma un dialogo surreale, e soprattutto un inizio di carriera forse teatrale forse no con un suicidio malaugurato e malaugurante. Branciaroli, ma poi questa scuola, l’ha frequentata per tre anni? “Dopo due anni, mi sono stufato e ho chiesto aiuto a Paolo Grassi. Gli portavo sempre il burro in scatola prodotto da mio padre. Ne era ghiotto. Cominciò a farmi permessi per andare a vedere le prove di Strehler. Lì ho conosciuto Patrice Chéreau, che nel ‘70 mi ha fatto debuttare”. 

 

Inizia una carriera che da subito lo vede collezionare grandi registi, grandi comprimari, grandi ruoli. In tutta questa vita, in cui entra pure un romanzo, La carne tonda (Aragno), scritto durante il lockdown, Branciaroli si è sempre dichiarato amante del peccato e delle donne: ne ha avute, giovani da giovane e giovani anche quand’era cresciuto, per poi forse raggiungere un senso di irrilevanza. Ma c’è anche un amore che dura dal 1980, quello per sua moglie Annamaria Sanna, che fin dall’inizio gli disse che aveva una forma di sclerosi progressiva, ai tempi senza sintomi. “Per me la cosa è semplicissima. Quando hai 35 anni è durissima, a 40 è durissima, a 45 cominci forse a maledire il giorno che ti è capitato di legarti a quella donna, a 50 continui, a 55 ti dici che forse hai sprecato troppe occasioni. Poi, man mano che invecchi, la situazione si capovolge e diventa il senso della tua vita. Uno stato d’animo insospettato che ti fa dire ‘Faccio il possibile per lei, trasformo la casa in un ospedale, mai la lascerò in una struttura per disabili’. La cosa interessante è che verso la fine dell’esistenza, quando tutto perde senso perché l’amore non c’è più, la passione non c’è più, la carriera non c’è più, questa missione diventa enorme, tu puoi darti una ragione, che è quella di aver impedito a una persona di provare l’orrore dell’abbandono, come un cagnolino lasciato in autostrada. Chiaro che se lei non avesse questa malattia non saremmo ancora insieme. Ci vorrebbe un grande scrittore per descrivere un sentimento così particolare, finora inesplorato. Come diceva Testori”, e ne fa la voce, “‘L’unica cosa importante è l’uomo, il resto è astrazione. L’unica cosa vera è un volto’. Pensi a cosa sarei io, che ormai ho 76 anni. Per fortuna c’è questo dovere che non mi dà modo di lamentarmi delle stronzate. Anzi, mi procura una forza enorme. Se me l’avessero detta quando avevo 50 anni non ci avrei creduto. Questi sono i miracoli veri”.

Di più su questi argomenti: