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Storie di amicizie letterarie

Caro Joyce, ti scrivo. Cade il mito dello scrittore solitario

Edoardo Rialti

Svevo e l’autore dell’“Ulisse” raccontati in un nuovo libro, ma non solo: Dante e Cavalcanti, Leopardi e Giordani, Tolkien e Lewis. I legami profondi dietro ai grandi capolavori

Scrivere è una esperienza solitaria, un’evocazione di morti, un dialogo fitto con persone e storie mai esistite che invadono il tempo e lo spazio quotidiano. Non si sa mai davvero chi accoglierà quel tentativo di comunicarsi al mondo, perché come notava Szymborska, si scrive per poi ritrovarsi – forse e solo forse – a stringere la mano a un ragazzo tra duecento anni. Per questo, al di là di critiche, successi, premi, dibattiti, ciò che un artista desidera di più non è essere ammirato ma anzitutto essere compreso, “visto”, messo a fuoco nel suo sforzo e nel suo cammino. Il conforto dello sprone e della stima di chi partecipa alla medesima scalata. Lo sguardo e la mano tesa di un amico nel tuo stesso lasso di tempo. Come scrisse C. S. Lewis, che intorno al calore del suo temperamento seppe radunare il gruppo di professori e scrittori che passò alla storia come gli Inklings, e che comprendeva colossi come J. R. R. Tolkien e fece da levatrice a “Il Signore degli Anelli” e “Narnia” tra volute di fumo delle pipe e boccali di birra, gli amici fondamentali nella vita si possono dividere in due categorie, parimenti importanti, l’alter-ego e l’anti-ego: “Il primo è l’uomo che per primo vi rivela che non siete soli al mondo, rivelandosi (oltre ogni speranza) capace di condividere tutti i vostri piaceri più segreti.

Non c’è nulla da superare nel farselo amico; lui e voi vi unite come gocce di pioggia su una finestra. Il secondo amico invece è l’uomo che non è d’accordo con voi su niente. Naturalmente condivide i vostri interessi, altrimenti non diventerebbe affatto vostro amico. Ma li ha affrontati tutti da un’angolazione diversa. Ha letto tutti i libri giusti, ma da ognuno ha tratto la cosa sbagliata. E’ come se parlasse la vostra lingua ma la pronunciasse male. Come può avere quasi ragione eppure, immancabilmente, non avere ragione? E’ affascinante (e irritante) come una donna. Quando vi proponete di correggere le sue eresie, scoprite che lui ha già deciso di correggere le vostre! E allora si va avanti, a colpi di martello e tenaglia, fino a notte fonda, notte dopo notte, o camminando attraverso un bel paesaggio che nessuno dei due degna di uno sguardo, ognuno imparando il peso dei colpi dell’altro, e spesso più come nemici reciprocamente rispettosi che come amici. In realtà (sebbene al momento non sembri mai così) si modifica il pensiero dell’altro; da questo perpetuo combattimento tra cani emergono una comunità di pensiero e un profondo affetto”. Spesso nei sodalizi artistici queste due relazioni sono fuse in un unico nodo di stimolo e provocazione. 

Enrico Terrinoni ha dedicato con finezza critica, empatia e sapienza cabalistica fatti di echi, rimandi, numeri, iniziali, uno studio a uno dei rapporti più intensi e fecondi tra due pesi massimi della letteratura contemporanea, La vita dell’altro. Svevo, Joyce, un’amicizia geniale (Bompiani). Due solitudini, due esuli diversi – l’irlandese nelle condizioni esplicite delle sue peregrinazioni, il triestino nella immobilità sofferta della sua grigia vita borghese – che incontrandosi contribuirono vicendevolmente a una svolta che avrebbe deciso tanto della loro opera, e cambiato la letteratura europea di inizio ‘900. I due erano appunto, simili e dissimili. Eccessivo l’irlandese, cauto e contenuto l’italiano. Come di frequente accade e fu ben esplicitato da Iris Origo, i temperamenti nordici e mediterranei si incarnano per contrasto nei rispettivi uomini e donne d’arte. I settentrionali sono tanto eccentrici quanto gli altri introflessi. “Diversi per età̀, educazione, origini, abitudini, vizi, capacità economiche e via dicendo” scrive Terrinoni. “Tutto questo, anziché́ scoraggiarci, credo, ci deve disporre a riconsiderare la questione di fondo, ossia il dato di fatto che, malgrado tutte queste distanze e i tanti tabù sociali, Svevo e Joyce nutrivano stima profonda per le rispettive opere, e quando possibile si vedevano di frequente e in maniera regolare. …L’amicizia tra Svevo e Joyce fu un’amicizia vera e profonda. Ma come tante amicizie incluse anche distanza e riavvicinamenti.

C’è un che di perturbante nell’aver scrutato negli occhi dell’altro, e con gli occhi dell’altro, la propria vita, le proprie esistenze potenziali. Come in uno specchio che riflette il futuro ma che fa anche riflettere sul passato. Eccola la lezione definitiva che questi due giganti della letteratura moderna ci consegnano. Riguarda la capacità di scorgersi come non si è ancora divenuti, e di farlo per essere come si vorrebbe diventare; senza invidia, senza voglia di rivalsa; con gratitudine e grande amore, con ammirazione e infinita riconoscenza”. I destini si decidono sempre a posteriori, eppure al tempo stesso sono lì, giacché noi e non solo i nostri biografi scriviamo sempre le nostre biografie a ritroso. I due pativano frustrazioni diverse e sovrapposte: il retaggio ebraico e irlandese, la sterile vita da impiegati bancari, i rifiuti, gli spazi letterari angusti dove piazzare faticosamente recensioni e conferenze su cui oggi invece si tentano intere tesi di laurea. Joyce arriva a Trieste nel 1904, in una città marina di confine e commistione a sua volta così affine e differente da Dublino e per sopravvivere tiene lezioni private di inglese. Tra i suoi studenti c’era Alice Weiss, madre di Lorenzo Milani e anche un uomo di mezz’età che nel corso di “conversazioni fittissime”, nel corso delle quali l’irlandese gli legge anche alcuni suoi racconti, prende infine coraggio e ammette che a sua volta scrive. Joyce torna a casa, legge quanto gli è stato consegnato e invia un biglietto di getto: “Lo sa che lei è uno scrittore negletto? Ci sono passaggi in Senilità che non avrebbe potuto scrivere nemmeno Anatole France”. 

Per Svevo, che da anni pativa il pressoché totale silenzio con cui erano stati accolti i suoi tentativi, è la svolta. Come notò sua moglie Livia, Joyce aveva colto “il grido amaro del confratello” e il suo apprezzamento scosse l’altro “da una specie di dormiveglia” cui si stava rassegnando. A loro volta gli Svevo, marito e moglie, adottarono Joyce, lo sostennero nei suoi costanti affanni finanziari – “Quel povero Joyce! Ci siamo attaccati una bella sanguetta” – ne conobbero le intemperanze e l’alcolismo divorante, lo stesso che poi lo avrebbe fatto barcollare per Parigi e scatenare risse che poi rifilava a Hemingway, molto più efficace di lui quanto a cazzotti: “Ernest, pensaci tu”. Eppure, Svevo sapeva a sua volta vedere dentro e oltre tutto questo, cogliendo l’essenza lirica dell’amico, l’intensità di fiamma sottesa agli eccessi, e persino alla sua andatura: “Quando lo vedo passeggiare per strada penso sempre che si trovi a suo agio, completamente a suo agio. Non lo aspetta nessuno e non vuole ottenere un qualche scopo o incontrare qualcuno. No! Cammina perché lo si lasci da solo. Non cammina per questioni di salute. Cammina perché non c’è niente a fermarlo. Immagino che se la strada davanti a lui fosse sbarrata da una alta parete spessa, lui non si stupirebbe affatto”. Dal canto suo Joyce, che ormai nella Parigi degli anni 20 balza sul podio dell’attenzione internazionale col gran caso dell’Ulisse tra entusiasmi (Pound, Eliot…) e disprezzi (Woolf) non dimenticherà mai il supporto del triestino negli anni passati e nella miseria, e cercherà in ogni modo di sostenerlo a sua volta. Riceve infine La coscienza di Zeno, operazione così isolata nella retorica dannunziana e nella prosa d’arte che fanno da padrini in Italia, e risponde così alle lamentele di Svevo per l’accoglienza ostile o indifferente di lettori e critici: “Perché si dispera? Deve sapere ch’è di gran lunga il suo migliore libro.” Non solo, si adopera perché il libro venga conosciuto da letterati e critici internazionali, ed ecco Valery Larbaud, suo traduttore, scrivere allo stesso Svevo appellandolo “Maestro” e paragonando la sua opera nientemeno che a quella di Proust.

Questo riconoscimento d’oltralpe apre la strada anche all’attenzione in Italia, ed ecco arrivare anche il tributo di Montale e Bazlen. Giungono offerte, proposte di traduzioni. Come scrive lo stesso Svevo: “Ho trovato le due lettere per gli editori. Non si può essere più̀ generosi di così”. Sta ovviamente parlando di Joyce. Le opere stesse dei due sono intrico fitto di echi, omaggi, strizzate d’occhio. Il 2 febbraio, date d’uscita dell’Ulisse e compleanno dell’autore, coincidenza a cui egli teneva molto nelle sue ossessioni simboliche, festa della Candelora, presentazione di Gesù al Tempio e al tempo stesso Giorno della Marmotta, è volutamente anche la data d’inizio del diario di Zeno quando questi dichiara la sua epica lotta alla dipendenza da sigarette. A sua volta Svevo è una faccia di quel prisma composito che è l’ebreo Leopold Bloom in persona del’Ulisse, così come sua moglie ispira Anna Livia Plurabelle, l’eterno femminino, la Beatrice del Finnegan. Svevo, pur ossessivamente geloso, aveva capito e inviò a Joyce addirittura un ritratto della moglie. 
Questa vicenda di amicizia e tributi reciproci è solo un caso specifico, per quanto clamoroso, di una lunga sequela, e ripercorrerla equivale in più punti a sorvolare la storia stessa della letteratura. Le sue origini risalgono ai margini sfocati della leggenda, all’alba dell’io e del tu singoli della lirica greca, quando la scrittura inizia a diventare ciò che noi stessi conosciamo. “O coronata di viole, divina dolce ridente Saffo” scrive Alceo alla poetessa lirica, sua conterranea e compatriota. Su questo singolo frammento si è molto ricamato: i due si amavano, si conoscevano direttamente nelle lotte tra le famiglie aristocratiche di Lesbo? Certo è che si tratta di uno dei primi omaggi da artista ad artista.

Nella Roma di Catullo invece possiamo già seguire una fitta rete di scambi personali, dediche, relazioni. La prima poesia dei suoi Carmi è letteralmente una dedica – come quelle che apriranno infiniti libri a seguire – all’amico che ha creduto nelle sue bazzecole: “A chi offrirò il libretto nuovo e fino / che la pomice asciutta ha levigato? / Cornelio, a te. Dicevi (d’abitudine); / di queste leggerezze, ‘Mica male’”. Come nei cenacoli di New York e Parigi, ci si legge reciprocamente i propri lavori, al caffè o a casa, li si improvvisa assieme in sessioni jazz, si torna a casa esaltati da questa comunione: “Ieri, Licino, che improvvisazioni, / sulle mie tavolette, in libertà…versi brevi, tu e io, in ogni metro / botta e risposta, allegria e vino. / Me ne sono andato così acceso / dal tuo spirito e dal tuo buonumore / che neanche il cibo mi faceva bene / e neanche il sonno mi chiudeva gli occhi”. Con gli altri scrittori si viaggia assieme, per discutere, conoscere, semplicemente per divertirsi. Orazio è al seguito di Mecenate nel meridione dell’Impero ed eccolo raccontare l’incontro a Sinuessa “con Varo e Virgilio, / persone di cui la terra non produsse altre più sincere, / e che a me siano affezionate. / Oh quanti abbracci e rallegramenti vi furono! / Finché avrò senno, nulla io preferirò a un amico gioviale”. A metà tra il tour di conferenze e le zingarate di Monicelli, si girano i borghi italiani tra degustazioni del pane locale, servette che promettono notti divertenti per poi lasciarti in bianco e risate ai presunti miracoli dei vari santuari. Virgilio ha occhi e stomaco delicati, passa il tempo a riempirsi di collirio. 

Uno scorcio identico alle tante foto in bianco e nero di Ungaretti, Luzi, Montale che sorridono mentre cenano e fumano a qualche premio letterario a Salsomaggiore o Sarzana. Anche in questo caso, come in tanti aspetti dell’esperienza umana, Dante la fa da padre fondatore o rifondatore. Nella sua opera, vocazione alla poesia, all’amore e all’amicizia sono un tutt’uno, sbocciano assieme. Il giovane fiorentino inizia a cantare Beatrice e invia il componimento A ciascun’ alma presa e gentil core agli altri letterati. Gli risponde un poeta poco più adulto di lui. Vedeste, al mio parere, onnevalore. Era Guido Cavalcanti: “A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: ‘Vedeste al mio parere onne valore’. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato”. Il primo amico, e su quel rapporto si innesta tutta la banda rock degli stilnovisti, Cino, Forese, Lapo, il musicista Casella. A questo spazio comune Dante dedicherà un sonetto a sé, il cui incipit al condizionale resta forse la sintesi suprema del riposo e dello struggimento di ogni amicizia. Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Eppure anche in una simile comunione di intenti si allarga il baratro della distanza e dell’incomprensione, le diverse posizioni politiche e più ancora il diverso giudizio accordato all’esperienza amorosa e all’esistenza di Dio. Dante dovrà mandare in esilio l’amico, a capo della sua stessa fazione Bianca, per equità con le misure prese contro i Guelfi Neri, e Guido morirà lontano da Firenze.

Dante sa che nel suo viaggio nel regno dei morti dovrebbe incontrarlo tra gli atei, ma non riesce a raccontarlo, in un transfert freudiano fa scorgere l’ombra dell’amico nel dialogo che ha in suo luogo col padre, dannato per lo stesso motivo. E per bocca del vecchio Cavalcanti rivolge una domanda a sé stesso. “Se per questo cieco carcere / vivo te’n vai per latezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? E perché non è teco?”. Non pago di essere la punta di diamante dei suoi amici fiorentini, Dante, col senso di sé che lo caratterizza, si immagina persino “sesto tra cotanto senno” al momento di incontrare i cinque grandi poeti classici del Limbo, con Virgilio che lo presenta a Omero e Ovidio. La scena è tanto malinconica e solenne quanto sottilmente ironica, con Dante che sosta incerto un poco lontano mentre Virgilio e gli altri parlottano tra loro e lo guardano, come un capannello di grandi autori che si ritrovino al Salone del Libro o allo Strega e uno di loro accenni a un esordiente laggiù nell’angolo, nervoso e imbarazzato, che comunque egli stima. Gli altri lo guardano da lontano, annuiscono e pure Virgilio sorride della presentazione andata a buon fine. Tutto nel lampo d’una terzina. Brunetto Latini dal cuore dell’Inferno si rammarica di essere morto e non poter più dare “all’opera conforto”, di non potersi sedere ad ascoltare Dante leggergli il poema che si sviluppa, discuterne assieme, fornire suggerimenti. 

Titoli, opere, nomi non sono però che la spuma del mare, la cornice del quadro. L’esperienza di fondo d’ogni amore è semplicemente sentirsi visti, appunto. “Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere se non rispondendo: ‘Perché era lui; perché ero io’”. Così Montaigne racconterà Etienne de la Boétie: “C’è, al di là di tutto il mio discorso, e di tutto ciò che posso dirne in particolare, non so qual forza inesplicabile e fatale, mediatrice di questa unione. Ci cercavamo prima di esserci visti e per quel che sentivamo dire l’uno dell’altro, il che produceva sulla nostra sensibilità un effetto maggiore di quel che produca secondo ragione quello che si sente dire, credo per qualche volontà celeste: ci abbracciavamo attraverso i nostri nomi”. L’isolamento dell’intellettuale moderno, nell’esplosione della società del mercato – anche editoriale – fa emergere ancor più la necessità di sodalizi e cenacoli. Si pensi agli entusiasmi commoventi di un ragazzino già mostruosamente geniale come Leopardi nell’intessere un carteggio con Pietro Giordani, trovando finalmente un interlocutore alla sua altezza nell’asfittica Italia della restaurazione. Non sempre i compari ti capiscono o apprezzano, però. Flaubert invita Bouilhet e Du Camp in campagna per leggergli integralmente il suo Sant’Antonio e quelli gli suggeriscono di buttarlo nel camino e festa finita. Quando T. S. Eliot si converte al cristianesimo Virginia Woolf, che ne aveva pubblicato le poesie degli anni precedenti, letteralmente azionando lei stessa i torchi della stampa, sentenzia con gli altri sodali di Bloomsbury che lo si deve considerare come morto e sepolto. Talvolta invece è proprio il contrasto ideologico ad alimentare la fiamma dell’affetto e della stima. Uno dei casi più emblematici resta il rapporto di Chesterton col suo miglior nemico, Bernard Shaw. Erano opposti in tutto, anche fisicamente, una montagna corpulenta e un fil di ferro. Dibattevano senza esclusione di colpi in conferenze pubbliche su Dio, la scienza e la società e poi andavano a cena assieme.

Girarono persino un film western di James Barrie vestiti da cowboy. Chesterton farà del suo amato oppositore (alla domanda se Shaw fosse “un pericolo in arrivo” rispose “Oh no, è un piacere che sta svanendo”) addirittura un personaggio letterario, l’ateo che ne La Sfera e la Croce viene sfidato a duello da un cattolico e per questo si trova a diventarne amico quando il mondo intero si coalizza perché i due non si affrontino, palesando così l’unico interrogativo che la contemporaneità cerca di evitare e tacitare. Il credente si appella a tutti i santi e il Calice di Cristo nella sua promessa di lotta senza quartiere e l’altro alza la testa e ribatte “Io vi do la mia parola”, con la stessa statura morale. Quanto a differenze, il già citato C. S. Lewis confesserà che entrando in università a Oxford lo avevano “tacitamente avvisato di non fidarsi mai di un cattolico, ed esplicitamente di un filologo. J. R. R. Tolkien era l’uno e l’altro”. Ne nacque invece un legame che portò anche alla nascita e discussione de Il Signore degli Anelli o Narnia, quando Lewis ammise all’amico: “Nessuno scrive le storie che ci piacciono. Ho il timore che dovremo farlo noi”. Talvolta gli amici e confidenti diventano poi custodi di un museo postumo, biografi e agiografi come Max Brod fu per la leggenda di Kafka o Boswell per il dottor Johnson e i suoi aneddoti lampeggianti. Talvolta non si è ispirati da una Musa ma da un Muso, come fu Bolano dal suo migliore amico, il poeta messicano Mario Santiago Papasquiaro, alter ego di Ulises Lima nelle sue opere e che dolorosa ironia morirà proprio sulla soglia di pubblicazione di Detective Selvaggi. In certi casi, come fu già per Dante e Guido, c’è un lieve divario, generazionale, di successo, tra i due, e allora il sodale è anche un mentore, a suo modo. “Mio solo umile maestro, o altro” scriverà con un commovente sfumato Mario Luzi di Carlo Betocchi. In altri contatti è il discepolo più giovane che illumina con la luce del suo entusiasmo e delle sue energie nuove la vita e l’opera dell’altro, come Solov’ev che segnò tanto profondamente gli ultimi della vita di Dostoevskij, lo accompagnò nel pellegrinaggio agli eremiti che diede il la ai Karamazov, e compare a sua volta parzialmente adombrato nel personaggio angelico di Alioscia. Elizabeth Bishop e Robert Lowell condividevano una psiche dilaniata (“suo figlio è un paranoico inguaribile” sentenziò nientemeno che Jung alla madre di lui, diagnosi da cui è difficile ripartire con ottimismo) e nel loro epistolario tra Nord e Sudamerica, la poetessa non si limita a discutere entusiasta i versi dell’amico ma talvolta si interrompe nel filo delle confidenze, taglia netto depressioni e interrogativi esistenziali e gli intima “Vai al cinema!”.

Creare vuol dire essere sempre a contatto con la propria impotenza, con dubbi, frustrazioni. “Non si sa sempre riconoscere che cosa è che ti rinchiude, che ti mura vivo, che sembra sotterrarti, eppure si sentono non so quali sbarre, quali muri. Tutto ciò è fantasia, immaginazione? Non credo, e poi uno si chiede: ‘Mio Dio, durerà molto, durerà sempre, durerà per l’eternità?’” confidava Van Gogh all’amato fratello Theo, per poi aggiungere: “Sai tu ciò che fa sparire questa prigione? E’ un affetto profondo, serio. Essere amici, essere fratelli, amare, spalanca la prigione per grazia potente. Ma chi non riesce ad avere questo rimane chiuso nella morte. Ma dove nasce la simpatia, lì rinasce anche la vita”. Per questo come notava Chesterton che “non è vero che uno più uno fa due: fa duemila volte uno”. Liberato dall’isolamento, l’io esplode, si libra al di sopra delle sue stesse possibilità. Molto è possibile a un tentativo solitario, molto altro di noi stessi è raggiungibile solo in un viaggio in compagnia. A secoli di distanza Carlo Betocchi echeggia a sua volta la dedica di Catullo a Cornelio, e la varia: “Tra noi che vale, se ti mando in dono questi miei versi, / o tu parli di me, / che vale il ricordarci quanti sono / i debiti che abbiamo l’un con l’altro, / ogni dedica è scritta, e non ce n’è di migliori, né un lascito più̀ scaltro / di quel che scrisse il reciproco amore del fare insieme, / senza chieder conto di nulla che a quell’opera maggiore / ch’era, non si sa come, amore insieme operante, che gode del suo vivere, / e noi siam nulla, l’abolito seme”. 

La tirannia dei social che trasforma sempre più le esperienze più sacre e private in merce da svendere a molliche quotidiane, col ricatto di una metanarrazione che fagocita ogni narrativa autentica, è una “simia Dei” dell’autentico scambio, anche intellettuale. Al suo ricatto, alla banalità della perfomance cui riduce pure l’amicizia e il sostegno tra artisti, alla sua corte universale – senza tuttavia mecenati o patroni – dove tutti devono comunque recitare una parte organizzandosi in cricche che si incensino vicendevolmente, è sempre bene contrapporre la confidenza di Epicuro a un amico, che Seneca a sua volta trascrisse a Lucilio nelle Epistole, e che tutti i nomi citati in questo articolo avrebbero potuto in modi diversi fare propria: “Io e te siamo spettacolo sufficiente l’uno per l’altro”.

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