Ansa

uffa!

I nuovi libri di Enrico Terrinoni e Simone Volpato traboccano di delizie triestine

Giampiero Mughini

"La vita dell'altro. Svevo, Joyce: un'amicizia geniale" è il racconto delle formidabili lezioni di inglese che portarono alla scoperta del grande romanziere italiano negletto. Una storia che fa bene il paio con "Trieste è un arcipelago": degli esseri viventi fatti di carta e caratteri a stampa

Non la finisci mai di fare i conti con la Trieste novecentesca, la città “atta agli eroi e ai suicidi”. Figuratevi quando a forza di scavare in quella miniera inesauribile che sono Trieste e la triestinità ti trovi a portata di mano il non piccolo evento costituito dal fatto che due dei più grandi scrittori del secolo scorso, a partire dal 1907, prendono a incontrarsi tre volte a settimana nella bella casa triestina di uno di loro (Italo Svevo), al quale l’altro (l’irlandese James Joyce) darà lezioni di inglese a pagamento. Figuratevi quando a studiare questo rapporto è Enrico Terrinoni, professore di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, uno che Joyce lo deliba a colazione a pranzo e a cena a giudicare dall’averne scritto più e più volte, tanto che l’edizione da lui curata dell’Ulisse bilingue (Bompiani, 2021) ha vinto nel 2022 il Premio Internazionale Capalbio per la traduzione. Terrinoni s’è dato a indagare gli inevitabili riflessi di questo rapporto sul destino letterario dell’uno e dell’altro e ne è scaturito un libro (La vita dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale, ancora Bompiani) che è appena entrato nelle librerie italiane. E tanto più che lezioni di inglese a parte, il Joyce parigino del 1922 sarà decisivo nel far partire proprio da Parigi i primissimi riconoscimenti letterari tributati a uno Svevo che aveva appena pubblicato il suo terzo e ultimo romanzo, La coscienza di Zeno, che dopo il totale insuccesso dei primi due (Una vita e Senilità) stentava a sua volta a trovare chi lo apprezzasse al giusto, ossia come quello di uno scrittore che ha creato il romanzo italiano moderno.

Svevo la lingua inglese la conosceva discretamente, a detta di Terrinoni. Ne aveva bisogno innanzitutto per motivi prammatici, perché lui andava continuamente a Londra a firmare contratti commerciali che avevano a oggetto le vernici antiruggine dell’azienda del suocero, e dunque aveva bisogno di usare con i suoi interlocutori inglesi un eloquio più agile, più svelto, il meno impacciato possibile. E comunque quelle lezioni di inglese in cui il docente aveva 21 anni in meno del discente, e alle quali assisteva talvolta la moglie di Svevo che le giudicava “geniali”, dovevano essere uno spasso da quanto Joyce le conduceva in modo del tutto non ortodosso, infischiandosene di sottolineare l’una o l’altra regoletta grammaticale e invece gettando sul piatto della conversazione la più vivace gli argomenti politici e letterari che più lo interessavano e che sarebbero successivamente andati a nutrire la sua opera letteraria. E’ gustoso quel che di una conversazione con lui al tempo della Prima guerra mondiale riferisce Letizia, la figlia di Svevo. Da italiana irredentista Letizia voleva che gli austro-tedeschi le buscassero, da irlandese Joyce si augurava che gli inglesi perdessero la guerra.

Tutto questo finché un giorno del 1907 Svevo prende il coraggio a due mani e svela a Joyce che anche lui è uno scrittore, o almeno che aveva provato ad esserlo, e gli mette in mano quei due cimeli della narrativa italiana stampati atrocemente in una tipografia triestina di fine Ottocento. Joyce li legge, e quando torna da Svevo gli dice: “Ma lei lo sa che è uno scrittore negletto?”, e pare si mettesse a recitare degli interi passi di Senilità facendo venire le lacrime agli occhi allo scrittore triestino. Al che Terrrinoni scrive: “L’immaginario narrativo di Joyce rimase a lungo legato al personaggio di Angiolina [la rovente protagonista di Senilità, nda], ma nella vita reale provò sicuramente un certo affetto anche per Livia, con cui la corrispondenza proseguì fino al maggio del 1939, a pochi giorni dalla pubblicazione del Finnegans, undici anni dopo la morte di Svevo e due prima della propria”. Cose triestine.

Cose triestine di cui trabocca un volume ai miei occhi imperdibile, Trieste è un arcipelago (Ronzani editore), quello che il mio vecchio amico Simone Volpato sta per mandare in libreria a celebrare i dieci anni di vita triestina della sua Libreria antiquaria Drogheria 28. Il libro nasce dal lavoro eccezionale che Volpato conduce da tempo in materia di ritrovamenti di testi e documenti prelibati della cultura triestina del Novecento. Tutto era cominciato alla morte, in una casa di riposo, di un’Anita Pittoni ottantunenne nel 1982, quando erano in pochi a ricordarsi di che razza di personaggio lei fosse stata da editrice e da scrittrice di primizie triestine. Alla sua morte Volpato scovò dei sacchi della monnezza dov’erano conservati libri e documenti inauditi che attenevano alla Pittoni e ne fece l’oggetto di alcuni cataloghi indimenticabili, ai quali io stesso ho attinto tutte le volte che ho potuto. Più di recente Volpato ha fatto lo stesso con il recuperare e mettere in vendita la succosissima biblioteca privata di un collezionista triestino sui generis, il notaro Manlio Malabotta (nato nel 1907, morto nel 1975), uno che negli anni aveva collaborato alle riviste di Leo Longanesi e che era stato a tu per tu con Saba, la Pittoni, Roberto Bazlen, Virgilio Giotti. I libri di cui Volpato racconta in Trieste è un arcipelago sono in realtà degli esseri viventi fatti di carta e caratteri a stampa, e questo da come ne grondano le particolari circostanze umane da cui quei libri nacquero. E’ come se tu li vedessi gli uomini che frequentavano la libreria di Umberto Saba e quel che leggevano, il momento in cui in una bancarella triestina dalle parti di Piazza dell’Unità vennero ritrovate le cento cartelle dattiloscritte di un diario di Anita Pittoni mai pubblicato, Bobi Bazlen che sta leggendo la sua copia della prima edizione del Canzoniere di Saba, Svevo che su un paio di copie dei suoi (invendutissimi) romanzi sta facendo le dediche all’uno o all’altro personaggio triestino del suo tempo. Delizie.