Facce Dispari

Enrico Terrinoni: “Io e Joyce, l'autore per tutti rapito dagli intellettuali”

Francesco Palmieri

Intervista all'accademico e traduttore dell'Ulisse. La scrittura, l'Irlanda e il sogno. E quei traumatici, fondamentali, sette mesi e sette giorni trascorsi dall'autore dublinese a Roma

È convinto, Enrico Terrinoni, che l’Ulisse di Joyce non sia un libro elitario, ma un capolavoro concepito “per celebrare l’uomo comune, il non eroe, l’ognuno che vive in ognuno di noi”. Lui che lo ha tradotto in italiano nel 2012, rompendo l’annoso monopolio della versione di Giulio de Angelis; lui che poi si è avventurato, con Fabio Pedone, nell’immane fatica di completare la traduzione del Finnegans Wake, sostiene che l’Ulisse si offra al lettore come una religione all’adepto. Sottoponendolo a una serie di prove “per condurlo alla rivelazione”.

Ordinario di Letteratura inglese all’Università di Perugia, 46 anni, nato a Gorizia ma romano, anzi romandublinese, Terrinoni amando entrambe le città ha spiegato anche a sé stesso (nel saggio ‘Su tutti i vivi e i morti’ edito da Feltrinelli) perché James Joyce considerasse con paura e tormento i sette mesi e sette giorni trascorsi a Roma, dove arrivò il 31 luglio 1906. E sostiene che quel breve periodo sia stato un seme fondamentale per l’Ulisse.

  

Perché?

La scrittura nasce dal trauma. In Joyce, mentre stava malissimo a Roma, maturarono idee fondanti sulla vita, la morte, la paura e le tentazioni, anche astrali. Purtroppo siamo abituati a non correlare più molto le biografie e le opere, trascurando l’importanza di certe esperienze per l’impulso creativo.

  

Come s’avvicinò a Joyce e all’Ulisse?

In principio fu l’interesse per l’Irlanda, la sua musica e la questione politica. Poi ebbi la fortuna, durante l’università e nel dottorato a Dublino, di lavorare con Declan Kiberd, curatore dell’edizione Penguin dell’Ulisse, il quale è sempre stato assertore del Joyce popolare, mentre in Italia veniva considerato un autore elitario. Ma è del tutto miope pensare che scrivesse per farsi dire quanto era bravo. Quest’idea è passata con la privatizzazione joyciana da parte dell’accademia transnazionale, soprattutto americana, quando occuparsi di Joyce dava prestigio e cattedre. Una vera industria: in cent’anni sono stati scritti più libri sull’Ulisse che in settecento sulla Divina Commedia.

 

Perché Joyce scriveva?

Per espandere la nostra coscienza. Ha disseminato le opere di enigmi non per allontanare il lettore ma per elevarlo. Gli ostacoli conducono alla rivelazione. Certo l’Ulisse non è un libro semplice perché neanche la vita lo è né la letteratura, che è un distillato della vita. Ma non significa che sia solo per intellettuali.

 

Come decise di tradurre l’Ulisse?

Nel 2007 svolgevo una ricerca all’Indiana University quando mi arrivò una mail: ‘Caro professore, le andrebbe di tradurre l’Ulisse?’ Lì per lì pensai a uno scherzo, poi un editor di Newton Compton mi spiegò che cercando su Internet il mio profilo corrispondeva esattamente a chi cercavano. Ora ho ripubblicato la traduzione per Bompiani con il testo a fronte.

 

Cosa pensa della traduzione de Angelis?

Ogni traduzione è sempre una traduzione possibile. Quella di de Angelis rispondeva alla cultura di un musicologo fiorentino che usava una lingua ora non più comune. E non disponeva di tutta la mole di studi su Joyce fruibile adesso.

 

E la traduzione di Celati?

Un grande scrittore, che perciò a volte si discosta dalla rispondenza testuale. La sua è una traduzione autoriale, la mia quella di uno studioso. Bisognerebbe definire, il suo, l’Ulisse di Celati. Come l’Amleto tradotto da Montale: fanno parte del loro corpus di opere. La mia traduzione è un atto di democrazia, quella autoriale un atto espressivo.

 

Si può leggere l’Ulisse senza aver letto l’Odissea?

Sì, Joyce stesso la conosceva dai riassunti. Gli servì a creare un’impalcatura ma ne modificò i personaggi: Leopold Bloom è migliore rispetto a Ulisse perché non è un violento, ma un uomo clemente.

  

  

Quali gli ispiratori di Joyce?

Dante, i Vangeli e Shakespeare ben più di Omero. Sicuramente Giambattista Vico ma soprattutto Giordano Bruno: Joyce deve tutto al principio della coincidentia oppositorum. Lo rivela in ogni pagina.

 

Come conobbe Bruno?

Lo lesse a 17 anni e a 21 recensì la bella monografia di Lewis McIntyre. Quando fu a Roma ripercorse l’ultimo itinerario del filosofo in occasione della commemorazione del suo rogo, il 17 febbraio 1907, dal carcere di Tor di Nona a Campo de’ Fiori.

 

Se incontrasse Joyce su quel percorso cosa gli chiederebbe?

Nella sua biblioteca triestina aveva solo De gli eroici furori di Bruno, di cui però conosceva tante opere. Gli offrirei un bicchiere di vino bianco, lui beveva solo quello, e domanderei dove sono finiti gli altri volumi del Nolano o se da lui avesse appreso la mnemotecnica per ricordarli. Joyce aveva una memoria incredibile.

 

Lei intitolò il suo primo saggio Occult Joyce. Dica la verità: le è mai apparso?

Quando traducevo Finnegans Wake, l’illuminazione di certi punti oscuri mi arrivava di notte, negli sprazzi di sogno che ha un insonne come me. Perché quello è un libro della notte.

 

Curiosità: com’è che ha recitato una parte nella fiction tv su Totti?

Sono un grandissimo tifoso romanista, anzi un tottiano: è stato un poeta del calcio. Quello di Falcao, di Maradona, non dei mercenari. Debbo ancora abituarmi all’idea che abbia smesso di giocare.

(Ma quando squilla lo smartphone del professore, parte la suoneria di La mano de Dios cantata da Maradona nel film di Kusturica. Joyce avrebbe capito. E anche noi).

 

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