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Il museo

L'arte vissuta molto da vicino

Maurizio Crippa

Un giro alla Galleria dell’Accademia di Firenze con Cecilie Hollberg, per capire cosa significa dirigere un museo

L’appuntamento è per lunedì 25 settembre, e verrebbe proprio la curiosità di essere lì, per vedere di nascosto l’effetto che fa, come canta la celebre canzone. Anche se non si tratta di un evento di quelli irripetibili, infatti si ripete esattamente ogni due mesi. Ma che valga la curiosità è più che certo: è un po’ come, nell’antica Versailles, il privilegio di assistere alla toilette del Re Sole. Qui il re è un altro, e per di più un immortale vero, è il David di Michelangelo che ogni due mesi si offre al rito della “spolveratura”. Viene montato un ponteggio mobile e di sicurezza, vengono utilizzati pennelli di diverse dimensioni a setole sintetiche, la polvere più volatile viene aspirata da speciali aspiratori museali e piumini tecnologici trattengono il particellato atmosferico. Una restauratrice raggiungerà la sommità della scultura, perché è soprattutto nei famosi riccioli che si annida la polvere e persino qualche ragnetto. Perché il David è il re della Galleria dell’Accademia – e della scultura mondiale – e ha diritto a un trattamento di riguardo. Ma non è l’unica attenzione di cui gode, il David. Lunedì 18 settembre nella sede del magnifico museo di Firenze (en passant: il secondo museo più visitato d’Italia dopo gli Uffizi, oltre un milione e centomila visitatori finora nel 2023), si svolgerà un convegno dedicato ai diritti d’immagine dei beni culturali, “Beni culturali e proprietà intellettuale”, organizzato in collaborazione con l’Associazione internazionale per la protezione della proprietà intellettuale. E che l’importante convegno si svolga proprio qui non è casuale.

Quando spiega come è nata la faccenda, Cecilie Hollberg, direttore della Galleria dell’Accademia, ha un lampo di orgoglio battagliero negli occhi chiari. Racconta: “Arrivavo qui in via Ricasoli e fuori c’erano sempre questi abusivi che cercano di vendere i biglietti, bagarini, sventolando pure i depliant con l’immagine del David. E’ ingiusto, quello è un patrimonio dello stato italiano, non può essere sfruttato così, in modo illecito. Così come accade anche per i libri o i poster. Allora mi sono rivolta all’Avvocatura dello stato per chiedere che potesse essere tutelata l’immagine dell’opera”. L’Avvocatura rispose in breve tempo (tra lo stupore degli scettici) e da allora molte sanzioni per sfruttamento illegale sono state attivate su segnalazione della Galleria: per la prima volta, in Italia, è stata affermata l’esistenza del diritto all’immagine dei Beni culturali “come espressione del diritto costituzionale all’identità collettiva dei cittadini che si riconoscono nella medesima nazione”. E questa tutela – in un mondo ormai dominato dai social e dall’intelligenza artificiale – vale anche più della toilettatura di un capolavoro: vale per tutto il grande sistema del patrimonio artistico italiano, altro che grida sovraniste e astratti furori sull’italianità. 

Ma le due cose vanno di pari passo, sono due gesti di un’identica passione, o si potrebbe dire un vero amore per le opere d’arte, dalla più insigne e famosa a quella minuscola e persino senza firma, che è il motore che muove tutto il lavoro di Cecilie Hollberg. Il direttore che ogni museo meriterebbe di avere e che – mentre ci accompagna per le scale e la galleria, tra i Prigioni e la Sala del Colosso del Giambologna, tra Giotto e Orcagna e Bronzino – si interrompe entusiasta per guidarci a scoprire il dettaglio incredibile di un’opera medievale minore, le dita di un santo che per mancanza di spazio erano terminate fuori, ripiegate sulla cornice, e che sono riapparse solo grazie a una ripulitura. “Ogni opera che c’è qui merita la stessa attenzione”, dice. E anche la tenacia con cui ha condotto qualche piccola battaglia vincente, sul mercato antiquario, per acquisire due pezzi di un polittico di Lorenzo Monaco, parti preziose di un puzzle che non sarà più ricomposto.

E l’orgoglio per l’acquisizione di un busto di Napoleone del grande scultore fiorentino ottocentesco (e bonapartista) Lorenzo Bartolini – che, tra gli altri meriti, fu il primo a indicare a metà Ottocento la necessità di sottrarre il David all’usura delle intemperie – e cui oggi è dedicata la sorprendente  sala della Gipsoteca: riallestita, de-umidificata e condizionata e che raccoglie molta della produzione di questo artista: “La scelta di quest’opera è un mio regalo personale a Lorenzo Bartolini”, racconta Hollberg. “La nostra Gipsoteca conserva numerosi busti in gesso dei familiari di Napoleone ma non uno che lo rappresenti. Questa effigie lo raffigura senza le insegne imperiali, reso nella sua individualità, e viene a colmare finalmente questa mancanza”. Ogni opera affidata a un museo è un patrimonio prezioso, va tutelato e valorizzato: “In fondo è esattamente questo il motivo per cui eravamo stati scelti, io e gli altri colleghi, per attuare la riforma dei musei di cui la Galleria di oggi è il frutto”. E ogni opera vuol dire che “la Galleria dell’Accademia non è ‘soltanto’ il posto dove c’è il David, i visitatori devono essere guidati a scoprire anche tutto il resto. Perché questo è un museo strepitoso”.

E’ dunque ora di tornare alla prima sala, dominata dall’imponente Ratto delle Sabine, del Giambologna, per provare a raccontare il senso della magnifica trasformazione della Galleria – ma questo lo vedono ogni giorno le migliaia di visitatori che entrano a farsi abbracciare dall’azzurro polvere, l’“azzurro Accademia” che in varie gradazioni ha ridato luce alle pareti. E’ ancora più interessante, invece, provare a comprendere la direzione di marcia e il significato del lavoro che Hollberg ha svolto in otto anni (il suo mandato scadrà tra qualche mese, nella primavera del 2024). Conviene partire da qui: da questa sala rinnovata fin dal tetto che era in pessime condizioni e nella illuminazione (un tempo un grigio uniforme), che raccoglie le grandi pale d’altare dell’arte fiorentina. “Una volta, i visitatori appena entrati tagliavano in diagonale, da una porta all’altra, senza nemmeno accorgersi: ma avevano ragione loro, era tutto scuro, incomprensibile. E si buttavano nella galleria, solo quello importava, il selfie col David; nemmeno ai Prigioni badavano, del resto anche lì l’allestimento era poco azzeccato”. E il museo era finito lì. “E invece questo è un grande museo, Michelangelo è Michelangelo, ma il nostro lavoro è invitare tutti di scoprire anche altro: e qui ce n’è di roba da scoprire”.

La tribuna del David, anche questa ripulita e con nuova illuminazione, è gran cosa. Del resto proprio quest’anno ricorrono i 150 anni dall’arrivo del capolavoro, l’8 agosto del 1873. Fu scelta la Galleria – già insigne casa dell’arte per i fiorentini da quando nel 1784 il Granduca Pietro Leopoldo decise di riorganizzare qui una Accademia delle Arti del Disegno, fondata nel 1563 da Cosimo I, dando vita a una moderna Accademia di Belle Arti occupando i locali del trecentesco Ospedale di San Matteo e del convento di San Niccolò. Poi vennero le soppressioni delle chiese e dei conventi operate dal Granduca Leopoldo e poi da Napoleone ad aumentare il numero e il prestigio delle opere: una storia comune a molti musei italiani, ricorda da vicino quella di Brera a Milano, ma conoscerla è importante, ci spiega Hollberg, perché fa capire quale sia la destinazione di un grande museo nazionale. Dopo un cammino che durò sette giorni (a causa del gran caldo la statua veniva mossa solo nelle prime ore della mattina) re David arrivò. L’odierna Tribuna del David nel 1882 fu progettata come “una vera e propria tribuna in onore del sommo artista”. Quasi un tempio laico, una volta illuminata dal cielo. Ma questo gran museo non è solo il David, i Prigioni, lo struggente San Matteo. Qui esistevano già le raccolte della grande arte sacra toscana del Due e Trecento, il Maestro della Maddalena, il Maestro della Santa Cecilia, Taddeo Gaddi,  Pacino di Buonaguida il cui magnifico Albero della Vita ha da pochi giorni un eccelso nuovo compagno di stanza, il Crocifisso Corsi, altra illustre acquisizione fortemente voluta da Hollberg, “perché qui noi avevamo già un Crocifisso Corsi, che però dal 2019 è stato portato agli Uffizi e non è più tornato”.

La storia della dipartita della preziosa opera d’arte da via Ricasoli in direzione Uffizi non può essere compresa senza l’inconcepibile, per inutilità e incongruenza, fattaccio politico che la rese possibile. Nell’agosto del 2019 lo sciagurato ministro dei Beni culturali dello sciagurato governo gialloverde, il transeunte Alberto Bonisoli, decise di accorpare l’Accademia (divenuta museo autonomo con la riforma Franceschini) con gli Uffizi, sollevando con ciò Hollberg dall’incarico che ricopriva dal 2015. Provò la stessa manovra anche per altri musei, sempre senza motivazioni evidenti; ma per la Galleria dell’Accademia la cosa apparve più grave, data l’importanza, e priva di motivazioni: se non l’avversione tutta politica per una riforma varata anni prima e, forse di più, per qualche insano appetito nella corte dei miracoli del demi monde accademico e ministeriale che sussurrava all’orecchio di Bonisoli. Tornò Franceschini e rimise le cose a posto, “ma il danno, un anno e più persi, mentre già partivano importanti interventi, la lentezza per separare di nuovo bilanci e funzioni, era fatto”. Hollberg tornò al suo posto, con il suo italiano perfetto e persino spruzzato di un velo fiorentino, con l’entusiasmo di una squadra ritrovata ma soprattutto con una determinazione ancora maggiore: c’era poco tempo e molto da fare. 

L’assurda vicenda, con il suo sapore amarognolo, potrebbe chiudersi lì. Non fosse che l’attuale ministro del Mic (la passione del governo Meloni per i nuovi acronimi ministeriali), Gennaro Sangiuliano, nella sua annunciata riorganizzazione dei musei ha indicato un’infornata di musei autonomi, e soprattutto l’upgrade da seconda a prima fascia di alcuni già esistenti. Tra essi appunto la Galleria dell’Accademia: che verrebbe però accorpata al Bargello, il museo nazionale della scultura di Firenze, a sua volta già autonomo (a fine mandato anche lì, dopo eccellente lavoro, c’è Paola D’Agostino) e che ha la responsabilità di altri siti minori. Così, dei due, ne resterà uno solo. E’ chiaro che un secondo prestigioso museo di prima fascia a Firenze, dopo gli Uffizi da cui è in uscita Eike Schmidt (sarebbe roba da popcorn vederlo competere nel centrodestra per trasferirsi dirimpetto come primo cittadino di Palazzo Vecchio, ma non vogliamo cedere ai gossip politici), sarebbe molto attrattivo per molti aspiranti; ma la complessità di gestione e le diverse esigenze poste dalla “casa di Michelangelo” (all’Accademia le sue opere sono ben sette, un record) e la “casa di Donatello” sono tali da far tremare le vene ai polsi.

Lo sa anche Cecilie Hollberg, ma questa storica medievalista nata in Bassa Sassonia, appassionatasi di musei a Dresda e che come primo incarico da direttore ha guidato la riapertura dello Städtisches Museum di Braunschweig non ama strologare il futuro. Preferisce spiegare che cosa ha significato, in Italia, guidare un museo, quali competenze si sono sviluppate e quali servono, e in soma di che cosa ci sarà bisogno, anche in futuro, per continuare il lavoro. Non si è trattato, spiega, soltanto di riallestire le collezioni – cosa fatta, anche con la consulenza di specialisti esterni come Carlo Falciani, esperto del Cinquecento fiorentino, o per la Gipsoteca. Il senso del lavoro, il mandato ricevuto, era quello di “portare la Galleria dell’Accademia di Firenze nel XXI secolo”, dice. “Il compito che mi è stato affidato – e come me agli altri direttori nominati dalla riforma Franceschini – era superare l’immagine e anche la poca funzionalità di un museo vecchiotto, non più adatto. Un’impresa enorme, realizzata con un piccolissimo staff e tanto sostegno esterno, in primis l’associazione gli Amici della Galleria”. Non è stato facile, anzi piuttosto accidentato, il percorso interrotto anche dalla pandemia.

Ma ripensare un museo non significa solo aumentare i biglietti. Anzi, spiega, “proprio in un luogo come questo, in cui ovviamente, il faro d’attrazione è il David, e gliene sono grata, in un periodo nuovo e diverso come quello che abbiamo vissuto e stiamo vivendo è chiaro che si debba fare di tutto per evitare ‘l’effetto Gioconda’ al Louvre. Bisogna riuscire a far incontrare al pubblico un percorso più ampio, che permetta anche di evitare l’assalto alla Tribuna, significa far respirare il museo e far respirare cultura al visitatore”. Cosa è stato più importante, in questo lavoro? “Il team”, dice subito: “L’aver costruito l’orgoglio di un piccolo team che ha iniziato a sentire ‘suo’ questo luogo, questo lavoro. Non un posto ministeriale come un altro. E poi l’autonomia, l’importanza dell’autonomia è poter intervenire, fare”. Persino nelle piccole cose: poter chiedere a un tecnico di fiducia quali estintori installare. La fatica di dover andare fuori, verificare le proposte di aziende e studi specializzati per poter progettare un intervento. Un po’ esperti d’arte, un po’ sovrintendenti alla conservazione, un po’ ingegneri alle prese con de-umidificazione e condizionatori, un po’ responsabili delle acquisizioni, un po’ comunicatori, un po’ ideatori di eventi in grado di attirare l’attenzione su nuovi dettagli (la soddisfazione di sentire l’affetto dei fiorentini, ma anche di stranieri che qui si sentono a casa). Ciò che tutti i direttori di museo hanno imparato è la complessità di un lavoro che non è quello di un curatore, né di un conservatore.

C’è una parola che Cecilie Hollberg preferisce all’abusato “valorizzazione”, ed è “dedizione”. Dice: “Bisogna avere dedizione per ogni singola opera che ci è affidata, ma anche per ogni singolo aspetto: da quelli tecnici a quelli della tutela della proprietà delle opere”. Il dramma incompiuto di questa riforma è invece, anche secondo lei, che la promessa autonomia non è ancora completa, soprattutto nel personale: “Non poter scegliere quel tipo di profilo, di competenza che serve, e la competenza che serve qui magari è diversa da quella che serve in un altro luogo; non avere a disposizione un architetto o un ingegnere per intervenire in tempo reale. Questo complica tutto”. Quello che funziona invece è chiaro: Galleria dell’Accademia è oggi un museo rinnovato, capace di valorizzare anche la preziosa collezione di strumenti musicali antichi, in deposito dal confinante Conservatorio, e di fare da apripista in tema di tutela. La prima sentenza per l’uso abusivo dell’immagine del David a scopo pubblicitario aveva affermato “l’identità culturale della nazione e della sua memoria storica”. E’ il lavoro dei musei, il lavoro dei direttori dei musei che alla molteplicità delle competenze – quelle che si avevano prima e quelle sviluppate nelle sfide di ogni giorno – aggiungono la “dedizione” per l’arte l’entusiasmo. Come Cecilie Hollberg, questa fiorentina d’adozione che a fine giornata fila via veloce in bicicletta, nella sua città.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"