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Firenze, Venezia, la ressa dei turisti e il ricordo delle strade deserte in pandemia

Adriano Sofri

Finalmente, la parola imbecille che era stata coniata ad hoc per le galere, sovraffollamento, superlativo di un superlativo, può estendersi alla società a piede libero, benché continuamente inciampato nel piede d’altri. C’è poco da lagnarsene, naturalmente, sarebbe antidemocratico

Tanto tempo fa – l’altroieri – le lamentazioni per l’affollamento di Firenze si concentravano ancora sopra le gite scolastiche. Chiunque finirà col vedere Firenze nella vita, perché non deviare le scolaresche, il loro chiasso e gli scarsi consumi in città meno proverbiali? A Grosseto, per esempio. Poi il numero di visitatori si andò gonfiando, avvicinando minacciosamente Firenze al destino segnato di Venezia, e allora si riconobbe che nell’effetto democratizzante del mondo globale non si potesse negare ai nuovi arrivati quello che era stato finora un privilegio dei vecchi arrivati. Restava un qualche diritto al sonno degli abitanti più o meno di ceppo, quelli che Venezia stava smaltendo alla svelta, ma gli abitanti, “i fiorentini”, che erano già una categoria impropria e, nell’accezione popolare, d’Oltrarno, erano stati deportati nel post-alluvione, si mostrarono entusiasti di migrare nel contado trasformando le loro case, palazzi di gran nome e modesti appartamenti di condominio, in affari di accoglienza per turisti, mettendo la città in testa alle classifiche del bi-and-bi, ammesso che si stilino classifiche attendibili di uno dei principali mercati neri. Quando venne la pandemia e la sua allegra e mortificante clausura, una derelitta copia del Decamerone, a restare chiuse furono anche tutte quelle case disertate, e vuote le tasche dei loro affaristi.

Ho una vergognosa memoria di quel tempo e del suo iperbolico privilegio, che autorizzava uno come me, in nome della sua qualifica di giornalista, a passare solo come un cane, solo con un cane, attraverso la Firenze intatta nei monumenti e svuotata di umani come per la bomba al neurone. In colpa e felice: l’uomo più ricco del mondo, senza un euro in tasca né una fessura in cui poter infilare e spendere un euro. Solo in certe città di guerra paura e coprifuoco può avvenire un simile miracolo. Allora si disse che niente sarebbe stato più come prima. Era vero: tutto è molto più di prima: gente, prezzi, fessure e voragini in cui infilare euro e altre valute. Finalmente, la parola imbecille che era stata coniata ad hoc per le galere, sovraffollamento, superlativo di un superlativo, può estendersi alla società a piede libero, benché continuamente inciampato nel piede d’altri. C’è poco da lagnarsene, naturalmente, sarebbe antidemocratico. E non vorrei cedere a una vecchiaia proustiana. Ma in questo periodo frequento più spesso Bologna, e vedo il suo concorso di folla straordinario. Però Firenze dà l’impressione di una ressa nella quale non si riconosce alcun tratto dominante, o semplicemente distinto. A Bologna sì. A Bologna sembra di esser capitati nel giorno di un un raduno mondiale di giovani reciprocamente simpatizzanti, come adepti di una stessa band, o di uno stesso Papa, o di uno stesso venerdì per il futuro, solo che è così tutti i giorni. A camminare nelle nostre città oggi un vecchio si sente un po’ in imbarazzo, fuori luogo, ma a Bologna no. Finché incontri un conoscente, ti saluta con calore: “E che cosa fai qua?” “E che ne so”.

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