un non filosofo

Il dilemma di Salvemini: farsi bloccare dal sistema o lottare con intransigenza?

Matteo Marchesini

Un uomo che, a differenza del tipico chierico italiano, ha praticato la ricerca e la militanza senza trasformare l’una nell’alibi dell’altra. Il sindacalista aveva una faccia sola in un paese in cui tutti sembrano averne due. I “pazzi malinconici” alla prova del presente

"Ha una faccia sola”, osservò Gobetti in un ritratto di Salvemini. “Vede tutte le cose linearmente”. Giudizio ammirato ma ambiguo; e che i molti detrattori, fino a oggi, hanno volto decisamente al negativo. Anche per questo è prezioso lo studio su “La filosofia di un non filosofo. Le idee e gli ideali di Gaetano Salvemini”, scritto da Sergio Bucchi e pubblicato da Bollati Boringhieri per i 150 anni dalla nascita dello storico e politico pugliese. Quella di Bucchi non è un’agiografia; ma proprio indicando gli errori del protagonista, e la sua onestà nel riconoscerli, trasmette la giusta stima per un uomo che, a differenza del tipico chierico italiano, ha praticato la ricerca e la militanza senza trasformare l’una nell’alibi dell’altra. Salvemini ha una faccia sola in un paese in cui tutti sembrano averne due: i dialettici idealisti come i dialettici marxisti, e i gesuiti democristiani come i liberali che per restare a galla accettano compromessi illiberali. Non a caso la vita del “non filosofo” scorre parallela a quella del filosofo idealista Benedetto Croce. Entrambi esordiscono con un saggio sullo stesso argomento: Croce scrive “La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte”, e Salvemini “La storia considerata come scienza”.

 

Nel discorso salveminiano, nota Bucchi, la storia non deve adeguarsi “al ‘mito’ della scienza”, perché “è la scienza stessa […] a vivere nella storia”. Il bersaglio di Salvemini non è cioè solo il nascente idealismo, ma anche il positivismo dogmatico, cui oppone la lezione empirista di Villari, Vailati e Cattaneo. Non basta l’accumulo dei dati: occorre una sintesi che li renda perspicui. E nelle sintesi lo storico si rivela maestro fin da giovane, quando compone un libro perfetto sulla Rivoluzione francese. Qui, contro le ironie crociane sugli ideali “utopici” del 1789, ricorda che quegli ideali sono stati così realistici da produrre enormi conseguenze in tutta Europa, e perfino in Italia. Dove però la situazione è più complessa. Come Croce, Salvemini difende i progressi postunitari; ma a differenza di lui condanna Giolitti, che non ha accompagnato lo sviluppo sociale con uno sviluppo del costume politico – e che anzi, dopo la concessione tattica del suffragio (quasi) universale, ha aumentato le violenze, illudendosi di conservare sul nuovo elettorato il vecchio controllo oligarchico. Così il paese è regredito, e guerra e fascismo hanno poi dato il colpo di grazia a un percorso democratico ancora incerto. Eppure, durante l’esilio angloamericano, quel percorso continua a sembrare a Salvemini l’unica strada. Non crede alle palingenesi rivoluzionarie. Contro Daudet, rimane fedele allo “stupido XIX secolo”, che per lui è invece il più glorioso, avendo diffuso i movimenti liberali e le loro naturali evoluzioni, la democrazia e il socialismo. Ma la retorica ideologica novecentesca ha a tal punto consumato queste parole, che sul Mondo l’anziano revenant proporrà di chiamare i tipi come lui “pazzi malinconici”.

 

Tuttavia, il “pazzo” Salvemini è diverso anche dai pannunziani. Non ha mai smesso di essere socialista; e davanti ai soprusi della Dc rifiuta di chiudere gli occhi per favorire un’ammucchiata antisovietica. Per Salvemini il presente esige sempre un’azione morale; e se vi si sfugge, fingendo di osservare la situazione dall’alto di un cielo idealistico-storicistico o da una tribuna scettica, si tradisce la propria responsabilità di individui. I valori, insiste, non possono annullarsi nei fatti. Dunque, in fondo neanche lui ha una faccia sola: per dirla con Ernesto Rossi, è diviso tra l’“azione di sentimentale” e la “mentalità di critico”. E così, pone alle terze forze un interrogativo ancora attuale. E’ meglio entrare a far parte di un sistema quasi bloccato, annacquando le proprie posizioni e magari lasciandosi a propria volta bloccare, o è meglio lottare con intransigenza, sapendo che la lotta nel presente è persa, ma che facendola si accumula un patrimonio di verità e dignità in grado forse di cambiare il futuro? Da quale parte sta, nell’Italia di ieri e di oggi, il realismo liberaldemocratico – o liberalsocialista?

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