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Cosa succede quando gli editori sono costretti a brandizzarsi per non sparire

Matteo Marchesini

Non c’è niente di più imbarazzante del cinismo inefficace di certa editoria che sforna titoli come "Esercizi di tradimento" o "Economia della placenta"

Da quando la letteratura ha perso il suo prestigio moderno, per non sparire dalla scena editori e autori devono brandizzarsi in modo sempre più spregiudicato, ovvero sostituire allo stile la stilizzazione. Il processo appare plateale nell’unico genere ancora in grado di affacciarsi agli spazi mediatici influenti: quello che si presenta come romanzo più o meno ibridato (col memoir, il saggio, la biografia…). Poco importa se il marchio scelto è minimalista o barocco, intimista o civile, lirico o splatter: ciò che conta è sottolineare caricaturalmente i contorni del prodotto, e assicurargli la vetrina rendendolo immediatamente percepibile come oggetto letterario, anche se proprio questo make-up lo trasforma al contrario in un mero surrogato. La stilizzazione perversa comincia dalla grafica, dalle immagini di copertina e dai titoli dei “romanzi”, che nove volte su dieci hanno un carattere finto-nobile, e in verità stereotipo, di cui gli editor e i gestori di scuole di scrittura, pur esibendo una mutria da severi personal trainer, non sembrano accorgersi. Ma non mostrando orecchio per stonature così evidenti, ci si chiede, potranno mai averlo per le sfumature del testo?

Ecco: se non è troppo presuntuoso, in queste poche righe vorrei aiutarli a riconoscere le stecche, usando appunto i titoli come sineddoche del fenomeno stilizzatore; e dato che non m’interessa censurare qualcuno, bensì indicare un sintomo diffuso, proporrò qui una parodia satirica, inventandone alcuni che risultano praticamente indistinguibili da quelli reali, e che magari sono già stati usati a mia insaputa. Si sta estendendo, ad esempio, una categoria di titoli che si pretendono raffinati solo perché etichettano la narrazione con termini saggistici, pseudoscientifici o pseudoartigianali, spesso accostandoli a parole che indicano sentimenti.

 

Ultimamente, tra i lettori cosiddetti forti, è tutto un passarsi libri intitolati “L’amore come arte militare”, “Esercizi di tradimento”, “Il rodaggio degli affetti”, “Catalogo delle passioni non corrisposte”, “Atlante delle mie prime gaffe”, “Anatomia di un divorzio”… C’è poi una variante più bizzarra e nelle intenzioni ironica, che di solito gioca anche sull’effetto dei nomi celebri fuori contesto: dalla minimum fax d’inizio secolo, che si entusiasmava per pretenziose trovate damsiane del tipo di “Cinque tesi sul tetris e Ho Chi Minh”, siamo arrivati ora a sintagmi come “Il mio cohousing con Frank Zappa e altri ricordi di agonia” o “Philip Roth non lavora il sabato” (probabilmente una storia di sesso tra insegnante e alunno a Trani o a Bene Vagienna). Notevole anche il tentativo di sedurre il pubblico con qualche spezia totalitaria: che so, “La lucertola di Goering”; o se si tratta di un più sofisticato romanzo-saggio-inchiesta da allievi di Carlo Ginzburg, “Un refuso di Krusciov”. Un’altra variante “nominale” è quella di chi fa dello spirito da innocuo surrealista padano: non disperate, prima o poi uscirà senza dubbio una “Biografia rancorosa di Anticoli Corrado”.

 

Su un altro versante, vanno invece segnalati i titoli che intendono esprimere un immaginario atrocemente carnale e insieme solennemente religioso: “Sotto il costato di tuo figlio”, “La seta e il sangue”, o con innesto del primo tipo “Economia della placenta”. Contiguo a questo filone è quello delle citazioni bibliche scelte da un Tarantino senza ironia: “Sono venuto a portare la spada”, “A chi non ha sarà tolto”, oppure “Il Signore si chiama Geloso”. Sempre nei pressi troviamo l’autore, o l’équipe editoriale, che prova a sedurre i possibili acquirenti parassitando un caso di cronaca nera, ma al tempo stesso mette le mani avanti a dire che no, che il libro non si riduce mica a questo, anzi è soprattutto una riflessione dostoevskiana sul Male: ecco allora andare in stampa, con fascetta colasangue e frase di Moresco, “Il diavolo a Novi Ligure”.

Siamo, lo si vede, alla categoria tonitruante; a cui appartengono anche i titoli cubitali di una parola sola, con o senza articolo, che sembrano tagliati nella copertina come una ferita: “Abrasione”, “Infami”, “La sdrucitura”… Più numerosi, però, sono i titoli che propongono un compromesso tra questa lapidarietà e un lirismo sfumato, intimistico-paesaggistico, qua e là impreziosito da un uso emotivo del colore: “Brucia il mare”, o “Verderame come l’odio”. La macchia di colore prevale poi nelle scelte di regionalismo bruto e suggestivo, da pro loco oscuramente minatoria: “Lu rusciu”, “U spinnu”, “La stariauna”, “Malòrsega”, “Cionghe”, “Bolgironna”, “Cazzimma”… Infine, oggi si registra un abuso midcult dei titoli imperniati sul termine “vita”: che è volta a volta “ostica”, “ingenua”, “segreta”, “esposta”, e via campando. Cari autori, cari editori o editor, gentili docenti delle scuole di scrittura, dopo questa carrellata siete un po’ meno sicuri del vostro gusto? Ne dubito. Ma forse sbaglio io. Forse sapete benissimo quello che fate, e lo fate per necessità aziendale. Purtroppo, però, si tratta in ogni caso di un’azienda sulla soglia del fallimento. E lo sapete bene, voi tipi matter of fact: non c’è niente di più imbarazzante del cinismo inefficace. 

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