Le manifestazioni del Sessantotto in Francia (foto LaPresse) 

il colloquio

Le Goff: "Il ‘popolo adolescente' post '68 è inerme di fronte alle tragedie”

Giulio Meotti

Intervista al sociologo e filosofo francese. "Siamo una società travolta da una pandemia di parole e diritti. Dal terrorismo islamico al Covid, copriamo tutto con le chiacchiere"

La democrazia di fronte a destrutturazioni sociali e culturali. Una disgregazione delle sue risorse interne, “come una sorta di smottamento antropologico e politico”. Una indigestione di parole e di diritti che hanno reso impotente una società travolta dalla pandemia e per la quale “la vita” è diventata il bene supremo e dove, come ha dimostrato il sociologo tedesco Ulrich Beck, il rischio è  intollerabile. “In questo contesto, stato e società si trovano culturalmente disarmati di fronte ai pericoli e alla tragedia della storia. Un processo di disintegrazione che è il punto cieco dei paesi europei alle prese con il proprio patrimonio culturale e politico”. Sono alcune delle tesi esposte nel nuovo libro del celebre sociologo e filosofo francese Jean-Pierre Le Goff, “La société malade”. 

“Le società europee si sono disarticolate dalla storia e vivono nella propria interiorità, dove la vita sembra essere confusa con la soddisfazione dei bisogni e dei desideri individuali”, dice Le Goff al Foglio. “Per capire questa nuova situazione storica, dobbiamo tornare al periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Lo sviluppo della società dei consumi e del tempo libero ha portato al benessere materiale e a una nuova ‘morale della felicità individuale’. La salute è definita dall’Oms come ‘uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale’ o come ‘il diritto di ogni individuo a godere del più alto standard di salute fisica e mentale’. Come potrebbe lo stato garantire un tale benessere e diritto a tutti? Tocqueville faceva già notare che nelle società democratiche si poteva introdurre un nuovo dispotismo per sorvegliare il destino dei cittadini e assicurarne il godimento. E perché non ‘togliere loro la fatica di pensare e la fatica di vivere’? Il terrorismo islamico è stata la prima prova che ha minato questa falsa quiete e angelicità. In un modo molto diverso, la pandemia ha diffuso un’ansia diffusa per la malattia e la morte in una società che pensava di aver finito con la tragedia della storia”. 

Un processo di disintegrazione, dicevamo. “La perdita di autostima mi sembra strettamente legata a una rottura della trasmissione del sapere e a una visione totalmente oscura del nostro passato. Il rapporto delle società democratiche con la storia, in Francia in particolare, è segnato da una logica penitenziale che tende a rendere l’occidente responsabile di tutte le colpe e i crimini dell’umanità. E’ vero che il colonialismo, le guerre, il totalitarismo e la Shoah hanno segnato profondamente i paesi europei. Tuttavia, nessun paese o civiltà ha un assegno in bianco dalla storia ed è importante sapere cosa apprezziamo nel patrimonio culturale che ci è stato tramandato”. L’Unione Europea affronta questo dilemma con l’immigrazione: “Integrare in cosa, se non sappiamo più noi stessi cosa ci rende specifici come nazione e civiltà? Il lavoro di ricostruzione non sarà fatto dall’oggi al domani. Ma dobbiamo smettere di denigrare i nostri ideali democratici e repubblicani in nome di un ‘multiculturalismo’ invertebrato, un comunitarismo e un individualismo vittimistico che mina la fiducia in noi stessi. Un paese che rende insignificante il suo passato si condanna a non inventare più un futuro che offra una speranza di emancipazione; un paese che non crede più in se stesso è aperto a ogni tipo di servitù”. 

 

Le Goff trae una lezione dalla pandemia. “Le società democratiche hanno la tendenza a dimenticare che il caso, i limiti e la tragedia sono inerenti alla condizione umana e alla storia. Di fronte alla pandemia la tendenza è quella di ridurre l’evento a ciò che è ‘già noto’ per diminuirne la portata. Ho parlato di una ‘pandemia delle chiacchiere’: l’evento è stato immediatamente coperto da commenti senza fine. Le polemiche tra gli scienziati si intrecciavano con le dispute politiche, giornalistiche e intellettuali in una situazione ingestibile. Ognuno ha cercato di dimostrare a tutti i costi di avere ragione e ne ha approfittato per regolare i conti. Ho contratto il virus in una forma relativamente lieve e ho trovato questo flusso incessante di parole, scritti e commenti fuori luogo rispetto alla realtà. Mi sono venute in mente le parole dell’Ecclesiaste: ‘Vanità delle vanità, tutto è vano. [...] Dall’abbondanza di parole nascono discorsi insensati. [...] Già nei giorni a venire tutto sarà dimenticato’. Come questa pandemia ha dimostrato, viviamo in società loquaci che possono dare l’illusione di aver agito efficacemente. E’ tutto un modo di funzionare delle società democratiche che è in gioco. I grandi media e le reti formano quella che chiamo una ‘bolla linguistica e comunicativa’ che copre subito il minimo evento. Questo nuovo modo di percepire il mondo funziona sull’emozione e la reattività; finisce per offuscare i punti di riferimento della realtà attraverso un flusso continuo di immagini e parole che satura lo spazio pubblico. Rende più difficile pensare criticamente, costituisce una delle forme postmoderne di ‘servitù volontaria’, offrendoci un punto di fuga dalla necessità di pensare”. 

Le società complesse e che invecchiano sembrano più esposte alle crisi. “Quando si critica l’individualismo contemporaneo, è importante sapere cosa precisamente viene messo in discussione. Lo sviluppo della modernità e della democrazia ha permesso all’individuo di emanciparsi dai pregiudizi del vecchio ordine e delle società tradizionali. In questo senso, l’individualismo democratico è inseparabile dall’ideale dell’Illuminismo. Allo stesso tempo, come ha analizzato Tocqueville, in una democrazia, l’individuo è portato a isolarsi dai simili, a disimpegnarsi dagli affari pubblici e tende a credere di essere disaffiliato e totalmente indipendente. Questa ambivalenza è consustanziale all’individualismo democratico. Da anni, ormai, la tendenza a ritirarsi in se stessi ha preso il sopravvento, portando a forme di dissociazione. Ma mi sembra un’illusione credere che si possa tornare ai ‘bei tempi andati’ in cui l’individuo si trovava naturalmente inserito in una comunità senza fare troppe domande. La democrazia è caratterizzata da una capacità di analisi e autocritica, che è sia la sua forza che la sua debolezza quando è in gioco la sua sopravvivenza. Di fronte a minacce esistenziali che mettono in discussione la vita individuale e collettiva, le reazioni possono essere varie. Questi periodi di crisi fanno emergere lati oscuri, ripiegamenti egoistici e ‘ognuno per sé’, ma anche iniziative di solidarietà, un sentimento patriottico che reintegrano l’individuo nella comunità. L’invecchiamento delle società non mi sembra di per sé un problema essenziale. Ciò che è importante è ricostruire il legame tra le generazioni, per trasmettere e condividere un patrimonio culturale e democratico che apprezziamo. Questa è la condizione per ritrovare la nostra autostima e reintegrarci nella storia affrontando le minacce di ogni tipo”. 

Lei in numerosi libri ha criticato le conseguenze culturali del Sessantotto, “Mai 68, l’héritage impossible”, “Malaise dans la démocratie” e “La France d’hier. Récit d’un monde adolescent, des années 1950 à Mai 68”. “Il maggio ’68 fu un evento che vide l’emergere nel mondo del ‘popolo adolescente’”, ci dice Le Goff. “A suo modo, questo evento ha sollevato questioni di civiltà sulla vita individuale e collettiva nelle società moderne e sull’idea stessa di progresso. Questa messa in discussione ha preso diverse forme estremiste, con una corrente di estrema sinistra che si riferiva alla lotta di classe e alla ‘rivoluzione proletaria’, e quella che ho chiamato ‘sinistra culturale’ con una tendenza libertaria, una rivoluzione culturale in materia di morale e cultura. La ‘sinistra culturale’ alla fine ha trionfato ed è stata istituzionalizzata negli anni Ottanta da una sinistra che aveva bisogno di un progetto, prima di essere ripresa da una parte della destra e di diffondersi nella società. Quella che chiamo ‘l’eredità impossibile del maggio ’68’ è segnata da una resa dei conti con la nostra eredità civile e ha portato a un ‘nichilismo al collasso’. Ma il maggio ’68 non è responsabile di tutti i mali. Per dirla schematicamente, la sfida che stiamo affrontando è il risultato della combinazione dello sconvolgimento del terreno educativo legato a questa rivoluzione culturale post anni Sessanta e alla sua istituzionalizzazione, con lo sviluppo della disoccupazione di massa e l’erosione delle solidarietà tradizionali. Questa combinazione ha portato alla destrutturazione antropologica e alle fratture sociali e culturali”.

Anche la scristianizzazione ci ha lasciato esposti. “La scristianizzazione e il malessere occidentale fanno parte di una lunga storia. La loro origine è legata ai dubbi sulle nostre risorse interne e a forme di autoironia che si sono sviluppate nel corso del secolo scorso e oggi incoraggiati da gruppi di pressione di sinistra e minoritari che occupano un ampio spazio nei media e nelle reti. La destrutturazione del terreno religioso e culturale ha reso il nostro rapporto con la finitudine e la morte difficile da sopportare. Con la modernità, il progresso ha potuto apparire senza limiti e la morte è stata espunta. I riti ancestrali che accompagnavano il lutto e mantenevano il legame con la comunità sono quasi scomparsi. Sempre meno persone muoiono in casa e i morti non vengono più vegliati; l’ospedale è diventato un punto di passaggio obbligato per un’agonia che la gente vuole tenere a distanza. Quando si verifica la morte di una persona cara, può essere vissuta come un crollo che cerchiamo di dimenticare il più rapidamente possibile o che trattiamo con antidepressivi”.

Sotto la pandemia, un ecologismo apocalittico ha preso il sopravvento. “Per anni, siamo stati culturalmente immersi nella profezia di un destino annunciato con le sue immagini scioccanti di ghiacciai che si sciolgono, tornado e inondazioni, e la distruzione della fauna e della flora”,  dice Le Goff. “Gli attivisti ambientali non hanno mancato di presentare la pandemia come ‘l’ultimo ultimatum’ inviatoci dalla Terra o la ‘prova generale’ della catastrofe climatica, sapendo che quest’ultima era irreversibile e sarebbe stata mille volte peggiore della crisi che stavamo vivendo. Le legittime preoccupazioni e i timori per le questioni ecologiche meritano di essere trattati diversamente, integrandoli con l’idea stessa di progresso, con i valori umanistici e razionali della nostra civiltà”. 

Difficile dire come ne usciremo. “La pandemia ha permesso di rimettere in discussione un certo modo di vivere nelle concentrazioni urbane, e il turismo globalizzato; l’aspirazione a tornare alla campagna, più o meno idealizzata, è stata nuovamente espressa; la percentuale di telelavoro è aumentata per certe categorie professionali... Allo stesso tempo, la deindustrializzazione, la dipendenza dalla globalizzazione deregolamentata e la perdita di sovranità sanitaria sono diventate evidenti. Tuttavia, non ne dedurrei che ‘niente sarà più lo stesso’. Non voglio fare il profeta; non credo in una rottura radicale e nell’avvento di un ‘mondo completamente diverso. Il disorientamento e la confusione delle idee, la situazione economica e la disoccupazione di massa formano un cocktail destabilizzante. Siamo in un periodo storico così critico che la ricostruzione richiederà tempo. La civiltà europea, che con il progresso scientifico e tecnico ha potuto credersi onnipotente e immortale, è particolarmente interessata. La pandemia ha accentuato il malessere democratico, ma allo stesso tempo ha dato vita a iniziative e solidarietà di fronte al ritiro individualista e comunitario. I tragici eventi hanno visto risorgere risorse che non erano state previste. Superano le divisioni ideologiche e politiche. E’ importante contare su coloro che affrontano la sfida della realtà con discernimento e preoccupazione per gli altri e la comunità. Queste sono le vere élite e la linfa vitale di un paese. Il patriottismo e quelle che una volta si chiamavano le ‘forze vive della nazione’ non sono scomparse, nonostante le nuove ideologie stiano erodendo la nostra autostima. Lucidità e pessimismo non sono la stessa cosa della disperazione. E’ importante sapere su quali risorse possiamo contare in questo periodo critico”. E mentre siamo minacciati da civiltà ben più salde della nostra. 

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.