(foto via Facebook)

Quel milione di fantasmi armeni ostaggio della realpolitik e dello choc di civiltà

Giulio Meotti

Non si può non comprendere quanto sia stato storico il gesto dell’Amministrazione Biden di riconoscere il genocidio di un milione e mezzo di armeni

“I dati dicono che ritorneremo sotto la Mezzaluna o la Russia. Noi viviamo perché i Russi ci lasciano vivere in cambio della sudditanza geopolitica e ideologica, statale ed ecclesiale”. Ci parla così Zhirajr, un armeno che vive in Francia. E non si può non comprendere quanto sia stato storico il gesto dell’Amministrazione Biden di riconoscere il genocidio di un milione e mezzo di armeni, il “Grande Male” come lo chiamano i superstiti della campagna di pulizia etnico-religiosa condotta dai Giovani Turchi. Un genocidio ostaggio della storia e della realpolitik. 

L’America non poteva lasciare la questione armena allo storico padre-padrone russo, ricordando che fu Henri Morgenthau, ambasciatore americano a Costantinopoli dal 1913 al 1916, a far conoscere al mondo quanto avveniva, gli armeni annegati e gettati nei burroni, il massacro di madri e figli nel cortile della scuola tedesca di Aleppo, gli orfani buttati nei fiumi…
Tutti i paesi europei hanno riconosciuto il genocidio e Papa Francesco è stato il primo pontefice a parlare di genocidio. “Il trauma del genocidio è uno dei pilastri dell’identità armena”, ha detto ieri al Wall Street Journal Benyamin Poghosyan, presidente del Center for Political and Economic Strategic Studies di Yerevan. I nonni  di Poghosyan sono sopravvissuti al massacro, ma hanno perso  tutti i  parenti stretti. La Turchia non lo riconoscerà mai, perché la moderna Turchia post Califfato fu costruita su quel peccato originale, la distruzione degli armeni, ma anche degli assiri e dei Greci del Ponto. Un popolo ostaggio dello choc di civiltà. “Il Nagorno-Karabakh sta nuovamente diventando un paese dell’islam e riprende il suo posto sereno all’ombra della Mezzaluna”, ha detto il presidente turco Erdogan dopo la vittoria azera contro gli armeni dell’Artsakh, l’autoproclamatosi Repubblica armena che azeri e turchi hanno smembrato lo scorso autunno in una guerra di aggressione. Un disastro demografico, se pensiamo a cinquemila soldati uccisi, quasi tutti ventenni, in una popolazione di tre milioni e in forte declino demografico, che riporta i superstiti sotto l’ombra del “Grande Male”. 

Israele, che con gli armeni ha un destino comune di perseguitati, di popolo-diaspora e di stato circondato da nemici, nell’ultima guerra ha armato gli azeri in chiave anti-Iran e non ha mai riconosciuto il genocidio armeno, sebbene siano ebraiche le prime testimonianze letterarie del genocidio (il romanzo “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel) e lo stesso Hitler, nel pianificare la Shoah, dirà: “Chi si ricorda degli armeni?”. Ed erano passati appena venticinque anni. 

 

“E’ tempo che America e Israele riconoscano il genocidio armeno”, scriveva a fine marzo sul giornale israeliano Jerusalem Post Emily Schader del Tel Aviv Institute. “In una mancanza moralmente imperdonabile, Israele e molte altre nazioni hanno fallito o addirittura rifiutato di riconoscere il genocidio armeno commesso dai turchi ottomani contro i cristiani armeni. Mentre in Germania il negazionismo dell’Olocausto è illegale, in Turchia è illegale affermare il genocidio armeno e il mondo intero è complice nel permetterlo. Il momento del riconoscimento è adesso”. 

La Germania – che fu già complice del genocidio del 1915 perpetrato dall’alleato ottomano – oggi è equidistante dall’Armenia. Il Regno Unito ha cercato di riallacciarsi al “Grande Gioco” utilizzando l’“ariete turco” in chiave anti russa. La Francia è l’unico paese dove la questione armena ha un peso storico, politico e culturale dirimente. 
E così, un secolo dopo, mentre l’Armenia si lecca le ferite di una nuova guerra, mentre assiste alla cancellazione del proprio patrimonio storico e cristiano finito in mani azere, il “Grande Male” continua a essere il pegno di quella “soluzione finale” del primo popolo cristiano della storia che i turchi non riuscirono, per fortuna, a portare a termine.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.