Una splendida riflessione sulla debolezza aggiornata alla nostra contemporaneità

Marco Archetti

“Ho fatto la spia”, il nuovo romanzo di Joyce Carol Oates

Diranno che è un romanzo al femminile. Poi che è un romanzo femminista. Poi che è una storia dolorosa e anche intensa – molto, molto intensa. Scriveranno che si legge con lo stesso spirito con cui, da bambini, ci si faceva schermo con le mani quando c’erano le scene forti. Celebreranno l’acume introspettivo con cui “l’indimenticabile protagonista” è tratteggiata e qualificheranno l’autrice come “una che non fa sconti”. Infine ci daranno dentro con tutti i corollari del caso, del genere “racconta la violenza tipica di una certa America”, convolando a nozze con tutti i luoghi comuni che purtroppo, ad ogni recensione, Joyce Carol Oates sembra ispirare.

 

Le ragioni per le quali accade che ogni recensione di un romanzo di Oates sia in fondo la recensione dello stesso romanzo di Oates al punto che potremmo addirittura scrivere quella del prossimo e nessuno se ne accorgerebbe salvo chi lo leggerà (se c’è una cosa su cui Oates non ha mai risparmiato, pur fedele al proprio canone, sono le invenzioni, i personaggi e le circostanze), restano a oggi misteriose. Certo è che questa coazione a ripetere la recensione non è colpa della scrittrice, la quale ha invece il merito, e ce l’ha anche nel caso di questo bellissimo Ho fatto la spia (La nave di Teseo, 496 pp., €20 euro), di servirci ogni volta una prova narrativa implacabile nello svelarci sempre qualcosa. Per carità, non si vuol negare che questo sia un romanzo con un’indimenticabile protagonista femminile che deve battersi contro un mondo di maschi (a tratti, forse, un po’ programmatici) ottusi e volgari, grossolani espropriatori di corpi e di esistenze, perché indubbiamente lo è. Né si vogliono negare possibili interpretazioni in chiave politica, altrettanto indubbiamente plausibili. Men che meno si fuggirà l’ammissione che, tra le pagine del racconto, sfolgori orrenda la provincia più deprimente e bieca, e sarebbe anche assurdo dissentire sul fatto che certe pagine siano un ceffone. Il punto è che tutti questi aspetti non sono la bellezza del romanzo. Che racconta molto altro, partendo dalla storia di Violet Rue Kerrigan, che è la preferita di papà, un immigrato irlandese, uomo rude, manesco e perniciosamente vitale (la pagina su di lui che tira di boxe coi figli maschi è da brividi). Violet ha solo dodici anni quando, dopo un’infanzia trascorsa nel nido della sua famiglia nel paesotto di South Niagara, da quello stesso nido viene espulsa perché “ha fatto la spia” e ha raccontato della notte in cui suo padre e i suoi due fratelli maggiori hanno preso accordi per nascondere (male) una mazza da baseball, che non era una mazza qualunque ma il corpo del reato: infatti, poche ore prima, servendosi della medesima, i ragazzotti avevano preso a letali randellate un diciassette nero. In seguito a questa rivelazione – la soffiata non le viene estorta, le vola fuori di bocca senza che lei stessa se ne renda conto – Violet viene spedita senza tante cortesie da una zia e mai più riaccettata indietro. Proprio come un pacco. Anzi, come un reso: Violet Kerrigan è un reso della vita perché ha tradito la famiglia e la famiglia è una tribù che può trasformarsi in un’associazione a delinquere; peggio: è una tribù nella quale dorme un’associazione a delinquere. Da lì in poi dovrà far tutto da sé, compreso difendersi in ogni momento, perché le famiglie hanno il rancore più lungo della memoria e i conti non sono mai regolati una volta per tutte.

 

Così, pagina dopo pagina, Ho fatto la spia diventa (con grande naturalezza narrativa, Joyce Carol Oates non odia il lettore al punto da volerlo educare) una splendida riflessione sulla debolezza, peraltro aggiornatissima alla nostra contemporaneità: i sani aggrediscono i malati e i colpevoli giustiziano gli innocenti. Perché è la debolezza stessa che grida per farsi divorare, ed è proprio così che va il mondo. Anche quello della Oates, che però, prima del Giudizio finale, prende insieme a noi un inatteso respiro: e la salvezza – forse – esiste.

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