Egon Schiele, “La morte e la fanciulla”, dipinto nel 1915 (Wikipedia)

Luogo di cura ma anche di perdizione. Chi ha paura dell'ospedale?

Gabriele Bronzetti

La prima pandemia dell’èra ipertecnologica ci costringe a ripensare la salute e i limiti della medicina. Dai racconti di Lev Tolstoj a quelli di Philip Roth, è in atto una metamorfosi della scienza sovrana

La pandemia da Coronavirus ha aperto un vivace dibattito sulla malattia, le cure e gli ospedali. In questi giorni i medici sono diventati eroi, tuttavia mai come ora gli ospedali sono temuti come luoghi di contagio e di fine ineluttabile. Chi si ricovera con sintomi di Covid-19 non lo fa con la speranza di chi va a farsi un by-pass coronarico, ma col terrore di morire intubato e senza una carezza. Grazie al progresso delle scienze mediche e dell’assistenza sanitaria, alla fine della pandemia conteremo un numero di vittime molto inferiore rispetto alla “spagnola” di un secolo fa: nondimeno la percezione collettiva di paura e insicurezza dentro gli ospedali è rimasta invariata. L’istituzione ospedaliera è stata messa in discussione e si è invocata la de-ospedalizzazione, citando filosofi come Ivan Illich. Questo nome richiama il protagonista di un racconto di Tolstoj, “La morte di Ivan Ilic”. E’ lui? Com’è possibile? Può succedere che un personaggio deluso dalla medicina scriva un saggio contro la medicina? Forse in un racconto di Borges. Lo scrittore argentino si affidava ciecamente ai libri e ai labirinti, temeva gli specchi e scriveva di universi paralleli, prima che la fisica quantistica se ne occupasse; fu tra i primi a parlare di mondi dove con scarti infinitesimali e infinite biforcazioni pulsano tutte le possibilità combinatorie. La teoria degli universi paralleli ammette l’esistenza di persone dal nome impercettibilmente diverso che entrino nella stessa trama, per esempio la medicina e il bisogno di cura dell’uomo. Nei mondi paralleli può succedere che un personaggio letterario trovi l’autore con cui ripercorrere la sua esistenza cartacea in una prospettiva antropologica e sociale (come se il Julien Sorel de “Il Rosso e il Nero” scrivesse un pamphlet su adulterio e decapitazione all’insaputa di Stendhal, per intenderci), evocando altri autori e altri personaggi. Ecco come Ivan Ilic incontra Ivan Illich.


L’istituzione ospedaliera è stata messa in discussione e si è invocata la de-ospedalizzazione, citando filosofi come Ivan Illich


 

Un giudice vive settantuno pagine (ed. Meridiani Mondadori) e 45 anni. E’ Ivan Ilic, sostituto procuratore. Lavora nel tribunale di San Pietroburgo a cui approda dopo una strenua ascesa. Sposa una donna medio borghese come lui e avrà quattro figli: due moriranno in una riga, poi c’è una figlia e infine un figlio che non verrà quasi mai chiamato per nome ma “il ginnasiale”, e in una riga viene liquidato come un vizioso onanista (una specie di Alexander Portnoy, vedremo poi il destino di quella mano). Il giudice compra un vasto appartamento, con sale da ricevimento e stanze private per tutti i familiari e per la servitù- su cui il racconto si sofferma a lungo. Ivan Ilic si occupa degli arredi fino ai dettagli, dalle suppellettili alle passamanerie. La casa è un’ossessione: il giudice prova dolore per ogni graffio del tavolo o del pavimento, durante i processi pensa ai broccati. Nonostante la casa sia grande, gli sembra che manchi una stanza perché sia perfetta. Un giorno, mostrando al tappezziere un tendaggio cade dalla scala e batte un fianco (si vedrà l’importanza di questo trauma). La vita scorre tra l’esercizio dell’onnipotenza nei processi, le partite a whist, unica vera gioia, e i litigi con la moglie: lui è psicorigido, lei ipocrita. Dopo un po’, quando la casa è sistemata, Ivan Ilic sente uno strano sapore in bocca (la disgeusia è un sintomo del Covid-19) e un dolore al fianco sinistro (punto doloroso di Gregor Samsa). Il dottore gli riserva il tono che lui usa con gli imputati: “Ora basta che voi non vi diate pena e vi sottomettiate a noi… il resto verrà dalle analisi”. Il dottore non parla, aspetta che parlino le analisi. Come oggi, i dottori non parlano ma prescrivono Tac. Il giudice peggiora, ancora più quando si mette a leggere libri di medicina (non c’era Google). Non riceverà mai una diagnosi; gli parleranno di un rene mobile e dell’intestino cieco, parole che ripeterà ossessivamente cercando una via per la conoscenza (dia-gnosi) e una pro-spettiva di guarigione (pro-gnosi). Il male – dalla descrizione dei sintomi sembra un cancro del pancreas o del fegato – lo consumerà, isolandolo in casa come un Gregor Samsa o come un Covid-19, con la fastidiosa prossimità della moglie (lo disgustano i suoi baci falsi, la sua alitosi, perfino la sua involontaria sensualità) e della figlia, con l’empatia del solo Gerasim, il servo che lo sostiene nelle immonde evacuazioni. “Perché a me? Cosa ho fatto di male? Ho vissuto a modo”.


Può succedere che un personaggio deluso dalla medicina scriva un saggio contro la medicina? Forse in un racconto di Borges


 

Il malato vuole trovare una causa della malattia che non sia la sua condotta, il più possibile esterna a lui. Il giudice teme la punizione per le deroghe dalla rettitudine che si è concesso, soprattutto la nemesi per l’hybris di “poter mettere in galera e annientare chiunque”. Si convincerà che tutto è iniziato con la caduta dalla scala. Proverà rabbia e disperazione. L’unica figura conviviale è il servo Gerasim; il figlio Vasja gli fa pena; alla moglie e alla figlia riserva un’ invidia rabbiosa: la prima è ante mortem preoccupata per la pensione di reversibilità, l’altra è una vacua maritanda che vede nel padre un inciampo. Ivan Ilic non avrà forza se non per dire “lasciatemi morire in pace”. Raramente l’oppio allevierà il dolore, mentre l’agonia incombe, tre giorni di incessante ululare “non voglio” nel buco nero dove Ivan è piombato. L’ultimo giorno, il “vizioso” si avvicina al letto del padre. Il malato grida, la sua mano destra finisce sulla testa del figlio che la bacia e piange. E’ l’unico gesto di pietà di un familiare. In quel momento Ivan vede una luce. Apre gli occhi, lo guarda e prova pietà per lui e per la moglie. Il dolore va via. Le sue ultime parole sono “Che gioia”. Quando il rantolo dirada, Ivan si dice: “E’ finita la morte, non esiste più”. Così, con l’ultimo respiro, “La Morte di Ivan Ilic” finisce nel momento stesso in cui cessa la vita, il 4 febbraio 1882.

 

Ivan Ilic si ammala senza un medico capace di una diagnosi o di dialogo. Ma il malato è un giudice, vuole una causa (l’eziologia) e non trovandola la inventa. Siamo nel 1881 (Freud si è appena laureato a Vienna), il sistema immunopoietico, impotente verso il cancro, si trasforma in un tessuto metaforopoietico, potente autolesionista. In assenza di diagnosi il malato costruisce metafore, pericolose generatrici di stigma e colpa. E’ stata la caduta dalla scala, sono salito troppo in alto, ho osato sfidare il cielo, pensa, ed ecco la vendetta. Nel mito Nemesi incatena Prometeo alle rocce caucasiche dove di giorno un’aquila gli spolpa il fegato che si rigenera di notte, prolungando l’agonia (è stupefacente come il mito precorra la recente scoperta dell’autorigenerazione epatica). Nemesi ha varie accezioni. La più esatta è “distribuzione di giustizia”, la più comune è vendetta.


“La Morte di Ivan Ilic” di Tolstoj, la storia di un giudice che si ammala e cerca conforto nella conoscenza e nella prospettiva di guarigione


 

Ma come fa un personaggio, un giudice, a scrivere un saggio sulla giustizia medica che gli è stata negata, novanta anni dopo la sua morte? Il 4 settembre 1926 nasce a Vienna Ivan Illich. Filosofo, antropologo, teologo, storico, apolide e infaticabile flaneur. Un pensatore radicale, indisciplinato frequentatore di tutte le discipline. Un iconoclasta che voleva abbattere convenzioni e istituzioni, considerato il teorico di descolarizzazione e deospedalizzazione. A lui si pensa quando si parla di decrescita felice, in realtà lo sviluppo sostenibile opposto all’industrializzazione ipercinetica e alla finanza creativa.

 

Tutto il male dell’Ivan malato, il filosofo Ivan lo vede nella medicina degli anni Ottanta. In “Nemesi medica” (1976) il filosofo critica la scienza medica, troppo tecnica e poco etica, inadempiente verso le istanze di cura dell’uomo. Per Illich l’ospedale, al pari della casa perfetta del giudice, è un sepolcro imbiancato. La presunzione medica porta in grembo la nemesi sotto forma di iatrogenesi. I medici senza cuore che prolungano l’agonia sono come il fegato che si rigenera.


In assenza di diagnosi il malato costruisce metafore, pericolose generatrici di stigma e colpa. “Ecco, ho osato sfidare il cielo”


 

Il racconto e il saggio scorrono come uno slalom parallelo sul più vasto scibile: il relativismo, l’assenza di Dio, la negazione della malattia del malato (come la negazione della pandemia dei governi), il bisogno di un colpevole o una causa fuori di noi (la caduta dalla scala e non cellule proprie fuori controllo, il virus cinese e non le nostre deboli difese, come quando la sifilide per noi era il mal francese e per gli inglesi il mal napoletano), la necessità di dare un nome al male, la sottomissione ai padroni della Tekne e della Tac, la distanza creata dalla malattia (il malato di Covid-19 isolato, un Gregor Samsa che muore nella sua stanza e viene spazzato via), la necessità degli affetti e del contatto (Ivan Ilic vedrà la luce solo quando toccherà la mano del figlio), il valore dei non professionisti nella cura (il servo Gerasim è l’unico a dargli conforto), e così via.

 

Ivan Ilic è il prototipo del malato moderno. Senza gli esami e i farmaci d’oggi, prova la stessa rabbia di chi riceve mille Tac e costose terapie per differire la morte senza mai essere pronto a morire. Il benessere materiale del giudice non gli evita una morte atroce, un fine vita che i poveri del suo tempo vivevano con più naturalezza. I vani della sua casa sono vani.


La iatrogenesi clinica e poi quella sociale. L’industrializzazione degli ospedali che vendono il prodotto salute. Un modello non sostenibile


 

Illich scrive: “La corporazione medica è diventata una grande minaccia per la salute”. La medicina causa malattie e un consumismo che “inventa” malattie come l’industria inventa bisogni, trasformando i malati in rapaci e incapaci consumatori di salute. La brama di salute individuale poi, non coincide con la salute collettiva. Per Illich la nemesi/iatrogenesi è di tre tipi: clinica, sociale e culturale. La iatrogenesi clinica incombe in ogni gesto medico: complicanze di interventi, effetti collaterali di farmaci, infezioni ospedaliere. Un tema più che doloroso oggi: molti contagi della Covid sono occorsi in luoghi di cura (sale d’attesa, camere, operatori sanitari e visitatori infetti). La iatrogenesi sociale, deriva dall’industrializzazione degli ospedali che vendono il prodotto salute. Se le aziende guarissero troppo i pazienti, fallirebbero. Il malato è succube, è paziente perché deve aspettare la clemenza dell’oligarchia medica. Ivan Illich parla di imperialismo diagnostico, un regime pervasivo che detiene un codice esclusivo, perché la diagnosi, anche solo le parole che si usano per comunicarla, cambiano il destino. A questa deriva Illich contrappone la decrescita sanitaria: “La società che riduce l’intervento professionale offre la migliore salute”. Ma cos’è la salute? L’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 1948 la definiva “stato di benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, una definizione che l’Ivan filosofo contesta perché si presta all’ipermedicalizzazione e all’abuso di risorse. L’Oms nel 2011 ha aggiornato la formula in “la capacità di adattamento e di auto- gestirsi nelle sfide sociali, fisiche ed emotive”. Questa sarebbe piaciuta di più Illich perché intende un malato dinamico, in grado di attingere a risorse individuali e sostenibili anche in malattie croniche e inguaribili. Infatti, l’Ivan malato vede la luce e prova gioia, l’unico momento di salute secondo la definizione Oms, proprio mentre muore e solo per il contatto della mano del figlio: in quel momento, un’equipe medica piovuta in casa con un drone non avrebbe potuto farlo sentire più sano. Il risparmio medico oggi si chiama slow medicine e il suo slogan è less is more. Secondo Illich le cure, diverse dalla guarigione a tutti i costi (inguaribile e incurabile non sono sinonimi), devono essere alla portata di persone non specializzate e a basso costo. Proprio quello che accade a Ivan Ilic: essere curato (non guarito) non da un medico ma da un servo analfabeta capace solo di empatia.

 

La iatrogenesi culturale riguarda dolore, fine vita e fede. Per Ivan Illich la medicina, spacciando immortalità, inibisce la capacità di soffrire. Illich applica la stessa visione edificante del dolore alla morte, verso la quale saremmo impreparati. I nostri avi ballavano sulle tombe dei cimiteri e delle chiese. Si ballava con gli scheletri anche nelle danze macabre, l’incontro tra il popolo e l’elite, la livella di Totò. In un noto morality play (teatro allegorico dell’Inghilterra del XV secolo), “Everyman”, l’uomo qualunque viene visitato dalla morte; offrirà denaro invano e quando sarà davanti a Dio, tra le tante virtù gli resteranno solo le Buone Azioni. Oggi la morte è oscena, inguardabile proprio quando è ovunque, sempre mediata da uno schermo (pochi hanno visto un morto vero). Abbondano i neonatologi che tengono vita chiunque pesi almeno tre etti e che sarà probabilmente figlio unico, e anche per questo non deve morire: se accadrà sarà colpa di una complicanza medica. Mancano i tanatologi che de-tengono in vita. Per Illich, l’uomo moderno viene espropriato della libertà di morire mentre “nessuno senza il consenso, dovrebbe essere ricoverato o molestato in nome della salute”. Illich come Basaglia, ospedali e manicomi, deospedalizzazione come antipsichiatria. Infatti, fragilità e individualità consapevoli rendono la malattia e la morte parte integrante della vita soggettiva. La medicina può irrompere in questo santuario con la brutalità di un elettroshock.


Ognuno dovrà essere curato il più possibile a domo sua, perché tutte le famiglie sane si assomigliano ma ogni famiglia è malata a modo suo


 

Ivan Illich muore il 2 dicembre 2002 di tumore, come Ivan Ilic. Un male vissuto con coerenza: un deturpante cancro del viso lo ha consumato senza che lui si facesse operare, ricorrendo solo ogni tanto all’oppio.

 

Se si parla di nemesi, morte e everyman non possiamo aggirare uno scrittore prolifico quanto Tolstoj e al pari di lui interessato alle passioni e alla morte. Uno che all’età in cui Ivan Ilic si ammala scopre di aver ereditato i geni della coronaropatia che lo porterà a 56 anni a un quintuplo bypass coronarico e poi all’impianto di 16 stent coronarici, per morire il 22 maggio del 2018 a 85 anni. Lo scompenso cardiaco è come un tumore che prima o poi prende tutto, polmoni e reni per primi. Medici fanatici hanno permesso a Roth una lunga vita, ma il 20 maggio 2018, in una stanza del Presbyterian Hospital di New York, lo scrittore ha chiesto che sulle sue arterie metallizzate non ci si accanisse più. Due giorni dopo è morto. Proprio “Nemesi”, dopo il “Teatro di Sabbath”, “Pastorale Americana”, “La macchia umana”, “Everyman”, ha chiuso un ciclo reso possibile dalla protervia della medicina cardiovascolare, che quindi non è stata per l’uomo Roth la Nemesi Medica paventata da Illich.

 

La Nemesi, titolo e destino, tocca invece a un giovane istruttore d’atletica. Siamo a Newark nell’estate del ’44, Eugene Cantor vorrebbe partire per la guerra ma un difetto alla vista verso il quale la medicina è impotente glielo impedisce. Intanto, un’epidemia di poliomielite investe gli Stati Uniti. Cantor segue la fidanzata in un campo estivo dove scoprirà di aver contagiato diversi ragazzi: è l’untore. Lascerà la fidanzata e si isolerà. Per lui la nemesi sarà la rinuncia a qualsiasi legame.


Per Ivan Illich la medicina, spacciando immortalità, inibisce la capacità di soffrire. Al dolore e alla morte non siamo preparati


 

Roth conosceva gli errori diagnostici e l’abuso di tecnologie mediche, descritte in “Patrimonio”, la “storia vera” della sua esperienza di figlio accanto al padre morente di cancro. Se “Nemesi Medica” di Ivan Illich sembra ispirato a “La morte di Ivan Ilic” di Tolstoj, il romanzo più biografico di Roth sembra ispirato dal saggio di Illich. Dalle pagine emerge la medicina pervasiva, la sua pressione paternalistica, la burocrazia che rende l’individuo un fenomeno di assistenza sanitaria e arroganza medica. Non si muore più come una volta. Herman Roth morirà un mercoledì dell’ottobre 1989 a 88 anni. Il doppio degli anni in cui è morto Ivan Ilic, grazie alla nemesi medica, e anche lui come il giudice, toccando per ultima la mano del figlio, il figomane onanista capace di scrivere “Il lamento di Portnoy”.

 

In “Everyman” Roth parla di un uomo qualunque, di sé. E’ un racconto lungo più o meno quanto “La morte di Ivan Ilic”, ma il protagonista è senza nome. Everyman non viene visitato dalla morte, ma dalle malattie e dai medici. Gli verranno messi stent ovunque e un defibrillatore cardiaco. “Nulla si fa senza rischio, nulla, nulla… nulla che non si ritorca contro, nemmeno dipingere stupidi quadri”, dice Everyman: è quello che pensa anche la signora Dalloway un mercoledì di giugno “è pericoloso vivere anche un giorno soltanto”. Everyman proverà la “rabbia e la disperazione di un triste malato incapace di evitare la trappola più micidiale della lunga malattia, il peggioramento del carattere”, la stessa rabbia che cambia Ivan Ilic. Il corpo malato prende tutto. Roth sale sull’albero genealogico per ballare coi suoi morti e parlerà col becchino che si dovrà occupare delle sue ossa. Si ricovera, un mercoledì, per mettere uno stent alla carotide destra (a sinistra l’aveva già). L’anestesista mascherato gli chiede se vuole l’anestesia locale o generale. Lui sceglie quella generale. E mentre il suo corpo, la macchina desiderante, sogna, non si sveglia più. Entra nel nulla per un arresto cardiaco, complicanza dell’anestesia generale che aveva scelto. Una volta si credeva in Dio morendo di stenti, adesso si muore di stent credendo nella cardiologia.

 

Cosa c’entrano le coronarie di Roth col coronavirus? Everyman muore solo e l’ultima persona che vede è un anestesista mascherato: un fato sinistro e familiare in questi giorni. Philip Roth oggi avrebbe 87 anni e sarebbe il fragile cardiopatico che vede coetanei e no morire come insetti boemi tra Manhattan e Bergamo. La pandemia ci ha reso tutti everyman, in un modo che neanche Philip K. Dick o un James G. Ballard potevano prevedere. Certo Defoe, Manzoni e Camus avevano parlato di peste ma per la prima volta abbiamo vissuto tutti, globali e connessi, una guerra dove il nemico ci ammazza senza un foro di ingresso e ci priva anche di una via d’ uscita dignitosa. Ci è stato detto che l’esito sarebbe dipeso da noi, soldati semplici acquattati in trinkea; e poi dalle difese della politica (in fondo la politica è medicina su larga scala), da quelle immunitarie e infine, da una buona dose di culo, quell’essere al posto giusto al momento giusto che per qualcuno pertiene al darwinismo e all’eugenetica. La politica si è occupata del nostro corpo, come fa da sempre, ma ora si è trattato di un esperimento di biopolitica planetario e sincrono. Le statistiche sanitarie, serotine come la febbre, e le ordinanze governative, sono i simboli di una rivoluzione: suonavano come la sirena antiaerea che annunciava “Pippo” e faceva rintanare ancora di più.

 

Questo tempo di Covid-19 è stato un esperimento di slow medicine: per malattie non- Covid 19 gli ambulatori erano chiusi, le sale operatorie aperte solo a urgenze e pazienti di ogni tipo son rimasti a casa anche con sintomi gravi, temendo il contagio. Infarti e ictus sono stati trattati tardivamente o mai, vaccinazioni e screening oncologici sono saltati. Con calma si dovrà studiare l’ impatto su mortalità e morbidità di tanta forzata astensione sanitaria. Si pensi che per sostenere la de-ospedalizzazione Ivan Illich portò ad esempio il calo della mortalità registrato in Francia in un giorno di sciopero dei medici (facile da confutare, un dializzato può stare senza dialisi un giorno, due no).


Philip Roth conosceva gli errori diagnostici e l’abuso di tecnologie mediche descritti in “Patrimonio”, la storia della malattia di suo padre 


Per chi ama le metafore, la Covid-19 è una malattia sistemica, non limitata ai polmoni ma che nelle forme avanzate invade il tessuto vascolare, diffondendosi a tutti gli organi con un meccanismo autodistruttivo: una reazione tardiva e smodata del sistema immunitario, come di chi, scordatosi di prendere le medicine per un mese, ne ingurgita una scatola d’un fiato. Una nemesi del sistema immunitario. Dove i malati si sono concentrati i casi sono aumentati; i medici poi, si sono ammalati diventando un tramite di contagio. La “Nemesi Medica” di Ivan Illich e la “Nemesi” di Roth sono attuali, tanto da chiederci se la nostra civiltà non sia troppo ospedalizzata. Di certo le pandemie e le malattie infettive son ben diverse da cardiopatie e urgenze chirurgiche. Si dovrà ripensare all’organizzazione sanitaria, al rafforzamento della medicina territoriale e della telemedicina. Ognuno dovrà essere curato il più possibile a domo sua, perché tutte le famiglie sane si assomigliano ma ogni famiglia è malata a modo suo. C’ è iatrogenesi, ma l’aspettativa di vita è in aumento, 15 anni più alta di quando Illich ha scritto il suo pamphlet nel 1976. Ora si può arrivare a 85 anni lucidamente, come è successo a Philip Roth, a suo padre Herman e a everyman.

 

La pandemia è stata la più grande impresa di panfilosofia compiuta dall’umanità. In tempo virale per la prima volta tutti, bambini inclusi, ci siamo chiesti cosa fosse il tempo, lo spazio, la vita, la morte, la politica, la scienza. Per un filo di RNA siamo tutti inconsapevolmente diventati epistemologi, e ora, uccidendo il Minotauro comportandoci da pecore, usciamo dall’asfittico labirinto vile attaccati a un filo d’aria. Una lezione di empatia e Medicina Narrativa impensabile due mesi fa, specie per coloro che non si sognavano nemmeno di convincere un medico su dieci a leggere “La morte di Ivan Ilic”.

 

Ivan Illich va riletto e rivisto. Lo smart working e la didattica a distanza hanno fatto rimpiangere fabbriche e scuole. Anche i ragazzi di Don Milani, quelli della “Lettera a una professoressa” non rigettavano la scuola tout court, volevano migliorarla perché non fosse “un ospedale che cura i sani e respinge i malati”. Gli istituti non saranno il manicomio paventato da Illich, se verranno aggiornati al tempo digitale: il nostro corpo, gli strati dell’io e dell’inconscio collettivo non sono solo forgiati dalle istituzioni, ma dalle tecnologie mediche, dalla biopolitica e dalla sorveglianza digitale. La salute non dipenderà dai muri, né dalle isole, ma da una scienza sovrana senza ismi, una consapevolezza che abbracci l’intera vita animale e vegetale del pianeta.

 

La mascherina serve. Ci fa tenere la bocca chiusa e con gli elastici ci apre bene le orecchie. Sopra la mascherina ci saranno occhi nuovi. Attivi e creativi come prismi e non passivi come specchi, che infatti Borges temeva più della Cecità, per Saramago la più contagiosa delle pandemie. In Africa dicono “se vuoi andare forte vai da solo, se vuoi arrivare lontano vai in compagnia”. Anche un uomo fermo può seminare i geni dell’uomo nuovo.