Brigitte Bardot (foto LaPresse)

Il mito di Brigitte Bardot ha segnato un'epoca, e pazienza per quelle “petites phrases”

Giampiero Mughini

Giovani cultori, libri introvabili, idoli eterni

Quando mi sono arrivate le bozze del libro su Brigitte Bardot che il corrispondente del Foglio da Parigi, Mauro Zanon, sta per pubblicare, la mia prima reazione è stata a metà latitudine tra la malinconia e la nostalgia. Malinconia perché, dannazione, sono già passati 15 anni da quando avevo pubblicato da Mondadori la mia apologia della Bardot dal titolo E la donna creò l’uomo. Nostalgia del tempo in cui la scoperta di quella divetta francese che incendiava lo schermo fece tutt’uno, per la generazione di chi ha avuto vent’anni nei Sessanta, con la scoperta della femminilità moderna; di quanto fosse rovente quella femminilità, e come ne sarebbe scaturita tra uomini e donne una contesa in cui sarebbero stati sovrabbondanti tanto i supplizi che le delizie, e ammesso che nella materia suddetta si possa distinguere tra supplizi e delizie.

 

Per Zanon, di tanto più giovane di me ma anche lui ebbro di Parigi e mi immagino della femminilità parigina, è esattamente questa la valenza della sua ammirazione per la Bardot? Credo di no, perché è impossibile replicare oggi la condizione sentimentale di noi ventenni dei Sessanta, quell’assieme acerbo di inesperienza erotica del femminile quando non di vera e propria sessuofobia che venne annichilito dall’uragano Bardot.

 

E difatti Brigitte non è più un’eroina talmente diffusa nell’immaginario delle generazioni recenti. Era così già quindici anni fa, al tempo in cui apparve il mio libro. “Giampiero, bada che la Bardot non è più un mito per chi ha oggi venti o trent’anni”, mi disse subito Bruno Tonini, un mio amico bresciano e libraio antiquario dei più raffinati. Quando andavo a presentare il libro sulla Bardot, era inevitabile che alla fine della chiacchiera mi si presentasse qualcuno con un microfono in mano che lavorava per una radio o una televisione del luogo a farmi delle domande sul libro. Non ricordo più se a Verona o a Padova mi si presentò con un microfono in mano una ventenne o poco più, alta, molto bella, fiammeggiante in quella sorta di gilet che lasciava vistosamente scoperto l’ombelico e i suoi dintorni. Da come mi si rivolgeva, capii che della Bardot non gliene importava un fico secco; a un certo punto mi disse che gliene aveva parlato suo padre, e lo diceva con l’aria di chi si riferisse a una che aveva vissuto al tempo degli etruschi. Le feci notare che il suo cipiglio regale nell’andare vestita a quel modo, lei lo doveva tutto intero alla Bardot, a una che aveva insegnato alla donne la gloria del loro corpo.

 

Peggio ancora, la volta che il libro sulla Bardot lo presentai in un bellissimo giardino pubblico dell’isola di Procida, se non sbaglio quello attiguo alla casa dove passavano le loro vacanze Elsa Morante e Alberto Moravia. Alla fine della chiacchierata in cui non avevo smesso per un attimo di incensare la rivoluzione del costume di cui la Bardot era stata protagonista con ogni particella del suo essere e fare, mi si avvicinò una francesina che in francese mi disse quanto fosse allarmata – se non sdegnata – da quel mio elogio. Confesso che caddi dalle nuvole, tanto quell’elogio mi appariva sacrosanto. Eppure no, la francesina insisteva che la Bardot fosse una réac, una reazionaria, una nemica del progresso. Ma sì, la francesina alludeva a certe “petites phrases” che trovava ripugnanti, e ovviamente si riferiva alle contumelie che la Bardot ha scaricato sugli islamici e in particolare sulla loro triste usanza di sgozzare delle caprette per far festa.

 

Che una ragazza giovane e moderna mettesse sulla bilancia queste “petites phrases” a contrappesare quella sfolgorante non so se promessa o minaccia erotica che la Bardot aveva impareggiabilmente esibito per vent’anni dagli schermi e dai giornali di tutto il mondo, mi lasciava letteralmente senza parole. Che altro può esserci di stringente e decisivo nel contrassegnare un’epoca se non l’armamentario erotico di una donna che ne sia stata protagonista, da Marlene Dietrich a Rita Hayworth, da Marilyn Monroe alla stessa Bardot? Ma come mettere sui due piatti della bilancia da una parte la Bardot dei suoi “anta” che aveva e ha tutto il diritto di non provare simpatia per l’islamismo, e dall’altra la ragazza che si scatena nella danza finale con cui Roger Vadim suggella Et Dieu créa la femme, le sue camminate a piedi nudi e in shorts sul ciottolato di Saint-Tropez, le decine e decine di migliaia di foto una più incantatoria dell’altra che scandirono la sua saga ventennale? Confesso che il ricordo di quella mia cretinissima interlocutrice a Procida è per me un incubo, e meno male che adesso arriva a cancellarlo il libro di un giovane adepto della Bardot quale è Zanon.

 

Se c’è un grande libro del femminismo, che lo inaugura e lo struttura, è il libro che Simone De Beauvoir scrisse nel 1949, Le Deuxième Sexe. Se c’è una donna che ha raccontato l’orgoglio di una donna nella sua interezza di persona è lei. Ebbene nei primissimi anni Sessanta l’agente rateale della Einaudi – l’uomo con cui avevo in quel momento più contatti al mondo – mi portò in un suo magazzino dove teneva le edizioni Einaudi ma anche le edizioni di un piccolo e saporitissimo editore romano, Roberto Lerici. Su uno scaffale tra i più risposti di quel magazzino giaceva un librino dal curioso formato rettangolare che l’agente della Einaudi mi diede in mano con un gesto furtivo, e questo perché era un libro sequestrato e dunque divenuto introvabile.

 

Edito da Lerici nel 1960 era il saggio che Simone De Beauvoir aveva dedicato al mito irradiante della Bardot, il tutto corredato da una sfilata di fotografie da brivido della nostra eroina. Un libro geniale, invenzione di un editore geniale il cui radar era puntato in ogni direzione. Molti anni dopo l’ho incontrato a Roma in un corridoio della Dear e lui mi raccontò com’erano andate le cose nel 1960 (Lerici sarebbe morto qualche tempo dopo di un infarto all’età di 61 anni). Il libro era appena uscito quando lui venne convocato nell’ufficio del procuratore capo del Tribunale di Roma. Sul suo tavolo di lavoro il magistrato aveva squadernato il libro alla pagina dove la Bardot era fotografata di spalle, la foresta di capelli biondi che le scendono a metà della schiena, lei che si sta allontanando svestita di un bikini la cui mutandina precipita pericolosamente verso il basso fino a mostrare il punto in cui si avvia la linea divisoria delle natiche. Il magistrato nell’accogliere Lerici nel suo studio arrivò allo scrupolo professionale di segnare con la matita il punto del corpo della Bardot dove avrebbe dovuto fermarsi la mutandina del bikini, ossia molto più su. Il libro perciò venne sequestrato salvo essere riedito due anni dopo in una versione priva di quella e di altre tre foto roventi, per lo più scattate da Vadim a sua moglie durante una vacanza a Saint-Tropez. Poco prima di pubblicare il mio libro sulla Bardot, ero stato in casa di Emilio Clerici, uno dei quattro figli di Roberto. Gli ho chiesto se per caso avesse la copia del libro edito da suo padre con i segni della matita fatti dal rigoroso magistrato. L’avrei pagata qualsiasi cifra. Purtroppo non c’era.

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