Brigitte Bardot durante le riprese del film “Piace a troppi” (foto LaPresse)

B.B. è nata qui

Andrea Minuz

Il formidabile racconto della storia d’amore tra Brigitte Bardot e l’Italia nel libro di Mauro Zanon

Come tutte le mitologie, anche quella di Brigitte Bardot ha i suoi punti fermi e le sue icone sacre: l’intuito di Roger Vadim, l’invenzione di Saint Tropez, il cotone di Vichy a quadretti bianchi e rosa o bianchi e blu, B.B. sdraiata a cavalcioni sull’Harley Davidson di Gainsbourg, o l’apparizione, sfrontata e folgorante, delle sue chiappe en plein air incorniciate da Godard a Capri, nella villa Malaparte, in quel “Disprezzo” che la scaraventò dalle copertine di Paris Match nell’olimpo intellettuale della Nouvelle Vague.

 

Ma la Francia non l’ha mai amata davvero (entrate in una qualsiasi libreria parigina, noterete la sproporzione tra la mole di libri dedicati a Jeanne Moreau o Catherine Deneuve e quelli sulla Bardot) e a questa mitologia mancava un pezzo fondamentale. Brigitte Bardot non sarebbe mai diventata B.B. senza il contributo di un parrucchiere di Cinecittà, un impiegato della Titanus che da castana la fece bionda e, senza saperlo, le spalancò le porte del mito. Contributo “inestimabile”, come lo definisce giustamente Mauro Zanon in “Brigitte Bardot. Un’estate italiana” (Gog Edizioni, prefazione di Giampiero Mughini, bozzetti di Milo Manara, 157 pp., 19 euro), formidabile racconto della storia d’amore tra Brigitte Bardot e l’Italia, scorribanda di ritratti, aneddoti, incontri ed estati indimenticabili tra la Costa Azzurra e Cortina, la “Madrague” e Spoleto, e ovviamente Roma, dove arriva alla fine del 1953 e scopre “una città magnifica, una vita piacevole e il fascino degli italiani”.

 

Dietro quei celeberrimi capelli biondi, sciolti o raccolti con fascia o chignon scompigliato, gialli come può essere il giallo in un quadro di Matisse, c’è il set di un film del 1956, “Mio figlio Nerone”, regia di Steno. Peplum sgangherato, comico e folle, con Gloria Swanson/Agrippina che appena rivede il figlio Sordi dice “t’è venuta la panza”, con De Sica che fa Seneca e una giovane, semisconosciuta Bardot nei panni di Poppea, con inevitabile bagno nel latte. La tunica romana cucita addosso come un baby doll, il CinemaScope, la luce del Technicolor rivelano un’altra attrice. Niente a che vedere con l’aspirante starlette francese che sin lì non aveva combinato granché. Se ne accorgono subito i critici italiani, a differenza dei loro colleghi francesi. Se ne accorge Vadim.

 

“Senza il contributo del parrucchiere di Steno”, scrive Zanon, “non avrebbe mai avuto l’idea di Juliette Hardy, la biondina acerba e tentatrice che avrebbe conquistato i cuori di un villaggio di pescatori della Costa Azzurra, prima di invaghire tutto il mondo”. Il film è “Et Dieu… créa la femme” (in Italia si intitolerà “Piace a troppi”, per evitare impropri riferimenti celesti), pellicola che segna la nascita ufficiale della “bardolatrìa”. Una mitologia che si trasforma quasi subito in oggetto anche letterario su cui si eserciteranno in molti: Simone De Beauvoir, con un saggio folgorante che appare all’alba del fenomeno (e che oggi farebbe arrabbiare le paladine del #MeToo), Edgar Morin, Marguerite Duras, e in Italia, Giampiero Mughini e persino Milena Gabanelli. Ma rispetto ai suoi anche illustri predecessori, Zanon ci racconta un’altra storia: dalla bambinaia (italiana) che le insegna ad arrotare le “erre” alla pazza estate italiana con Gigi Rizzi, dai balli sfrenati sui tavolini dell’Hostaria dell’Orso al motoscafo Riva con cui amava fare sci d’acqua, nelle pagine di questo libro Brigitte Bardot si trasforma in uno specchio in cui si riflettono la vitalità, la creatività, la fame, la smania di modernità e la voglia di riscatto del nostro paese nella sua irripetibile golden-age.

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