Il trittico “In memory of George Dyer”, che Francis Bacon dedicò nel 1971 al suo modello e amante appena deceduto

Dolore, orrore, vergogna: le ultime ore di Dyer, l'amore di Francis Bacon

Sergio Garufi

Visita alla camera dell’hotel dove si suicidò il compagno del pittore

Anche i capolavori tornano sul luogo del delitto. Il trittico “In memory of George Dyer”, che Francis Bacon dedicò al suo modello e amante appena deceduto, ci ha messo quasi mezzo secolo per farlo, ma alla fine ha rivisto Parigi, la città in cui fu concepito. L’occasione è stata un prestito della Fondazione Beyeler di Basilea, la proprietaria dell’opera, al Centre Pompidou affinché il quadro venisse esposto nella mostra “Bacon en toutes lettres” che si è conclusa di recente. Bacon nel tempo ritrasse decine di volte il suo compagno in modo ossessivo, a nessun altro rivolse tanta attenzione, ma questo dipinto lo fece a memoria, come s’intuisce dal titolo. L’omaggio postumo fu eseguito a caldo in un momento cruciale della parabola umana e artistica del pittore dublinese e della loro vita di coppia, poco dopo il suicidio di Dyer avvenuto alla vigilia dell’inaugurazione al Grand Palais di una mostra interamente dedicata a Bacon. Era l’ottobre del 1971. L’occasione era storica, un onore in precedenza riservato solo a un altro artista vivente: Picasso. Bacon e Dyer giunsero nella capitale francese qualche giorno prima. Presero alloggio in una suite dell’Hotel des Saints-Pères, situato nell’omonima strada del quartiere latino. Lui era venuto per seguire personalmente l’allestimento dei quadri, ma volle occuparsene da solo. Era molto nervoso, cambiava idea di continuo, come se non fosse mai soddisfatto delle proprie scelte. Un riconoscimento di quella portata equivaleva a un Nobel, ma lo esaltava e atterriva allo stesso tempo, perché sapeva bene che “l’umanità si difende dal genio negandolo e se ne sbarazza riconoscendolo”.

 

La mattina di domenica 24, due giorni prima dell’inaugurazione, mentre Bacon rilasciava interviste e discuteva gli ultimi dettagli al Grand Palais, Dyer fu trovato morto nel bagno della loro stanza da un inserviente dell’albergo. A causarne il decesso fu un mix fatale di alcol e barbiturici. Sulle ragioni di quel suicidio si fecero parecchi pettegolezzi, come preconizzò Cesare Pavese. Alcuni dissero che Bacon si vergognava di presentarlo in pubblico, soprattutto nelle grandi occasioni come quella. Dyer era un ubriacone pericoloso, che dava facilmente in escandescenze. Nell’autunno del ’63, quando si conobbero in un pub di Soho, era un trentenne di bell’aspetto ma che aveva passato più della metà della sua vita in carcere. Per altri invece la colpa fu della depressione di cui soffriva da tempo, e per la quale aveva già tentato altre volte il suicidio (come per esempio in Grecia, dove Bacon l’aveva salvato per un soffio). E non aiutava di certo il fatto che la loro relazione fu sempre molto tempestosa, a tratti violenta.

 

L’Hotel des Saints-Pères esiste ancora, è un quattro stelle elegante e discreto ospitato in un edificio del XVII secolo. opera di Daniel Gittard, l’architetto del Re Sole. Divenne un albergo dopo la Prima Guerra mondiale, e negli anni dalle sue stanze sono passati molti artisti famosi come Juliette Gréco e Michel Leiris. L’ultima ristrutturazione risale al 1980, quando entrò a far parte del gruppo alberghiero Esprit de France, che riunisce alcune dimore storiche transalpine, ma la suite 203 è rimasta intatta come allora. Scoprire il numero della stanza non è facile, nonostante mi dichiari un giornalista. Le biografie di Bacon tacciono su questo dettaglio, e il personale dell’albergo è molto reticente. Solo dopo parecchie insistenze acconsentono a dirmi il numero e a mostrarmi i locali. Questa non è la camera 214 dell’hotel Century di Praga, pubblicizzata in ogni dove e prenotata con mesi di anticipo perché lì Kafka trascorse quattordici anni della sua vita, dato che era il suo ufficio all’Istituto di Assicurazioni. Ma non è tanto il suicidio in sé a provocare imbarazzo e disagio, quello oramai è un’attrattiva, come dimostrano le comitive di turisti che visitano in gran numero la casa di Dalida in Rue d’Orchampt, quanto il fatto che la tragedia riguardi l’anonimo fidanzato dell’artista.

 

Il concierge mi accompagna lungo le scale e arriviamo al secondo piano. La passatoia rossa è identica a quella che si vede nel pannello centrale del trittico di Bacon, che ritrae uno spettro nell’atto di accomiatarsi da lui e dalla vita, come se la porta di quella stanza d’albergo fosse una specie di soglia verso l’aldilà. E infatti nel pannello di destra il volto di Dyer si riflette su un tavolino, come una specie di Giano bifronte, la divinità che presidia le soglie. Il portiere mi apre la porta e resta in attesa, distogliendo subito lo sguardo quando sfodero il taccuino d’ordinanza. Io prendo appunti, sono armato delle migliori intenzioni, e tuttavia sono armato, anche se solo di un taccuino, non a caso “d’ordinanza” in quanto strumento poliziesco, e “sfoderato” in quanto strumento d’offesa. Mi conferma che hanno sostituito alcuni arredi, com’è naturale, ma che la struttura della stanza è invariata da più di mezzo secolo, con il salottino per fare conversazione all’entrata, il bagno con vasca e doccia ai lati e il water separato che divide il soggiorno dalla stanza. E infine la camera matrimoniale con scrivania e finestra che affaccia sul patio interno.

 

La toelette fa una certa impressione, gli spazi sono angusti e non ci si può evitare di specchiarsi. Qui fu trovato il corpo di George. Viene in mente la citazione preferita da Bacon, attribuita a Jean Cocteau, secondo la quale “ogni giorno davanti allo specchio vedo la morte all’opera”. Scatto qualche foto. Ricordo che nelle immagini dell’inaugurazione ufficiale, due giorni dopo la tragedia, Bacon discorre amabilmente con colleghi illustri venuti a omaggiarlo da ogni dove, come Joan Mirò e André Masson. Il vernissage fu un tributo universale: il catalogo vantava un saggio di André Malraux e fra i visitatori c’era pure un giovane David Hockney venuto appositamente da Londra. La notizia del suicidio di Dyer non circolò in quell’occasione, e Bacon non ne fece parola, ma se tacque a parole parlò più tardi col pennello, in quel trittico dall’espressione dolente e orrificata che eseguì nei due mesi successivi. Oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, uscendo dall’albergo in una delle strade di Parigi più affollate di targhe commemorative che ricordano scrittori, musicisti, partigiani e stilisti, non esiste alcuna traccia di quel tragico evento, come se la vergogna e il senso di colpa di Francis Bacon gli fossero sopravvissuti.