Colazione da Freud

Il ricordo di chi ha posato per lui. Due giganti della pittura del ’900 in mostra a Roma: c’è anche Bacon

Giuseppe Fantasia

Roma. Bastava una sua frase – “vuole venire a colazione da me?” – per far cambiare il corso di un rapporto, per creare l’impossibile da una situazione possibile. Lo racconta al Foglio David Dawson, artista, amico e ultimo assistente di Lucian Freud (1922-2011), “un pittore capace di sconvolgere il mercato dell’arte vendendo un proprio quadro a oltre diciassette milioni di sterline”, colui che ha fatto impazzire i grandi della terra (la Regina Elisabetta in primis), super star (Jerry Hall e Kate Moss, ritratte entrambe senza veli e col pancione) come gente comune. Quella domanda Dawson se la sentì ripetere più volte nel 2003 quando decise di farsi ritrarre nudo sul letto con il cane Eli. “Riuscì a convincermi perché era un uomo che sapeva entrare nella tua mente nel migliore dei modi possibili, solo con sguardi e parole”, ricorda lui, alto, fisico asciutto e occhi chiari. “Posavo tra le cinque e le sei ore al giorno nel suo studio a Holland Park e la cosa andò avanti per diciotto mesi”, aggiunge, “una gran fatica, ma alla fine quell’esperienza è stata per me stupefacente”. Il dipinto realizzato, “David and Ely”, è uno dei più conosciuti dell’artista berlinese poi adottato da Londra, città che proprio nel 2002 gli dedicò un’indimenticabile mostra alla Tate Modern. “Nessun imbarazzo per il nudo molto esplicito”, precisa Dawson, “la nudità rivela quello che siamo, rivela noi stessi”. Quella tela imponente (quasi due metri per due) e di grande effetto è uno dei pezzi forti della mostra “Bacon, Freud, la Scuola di Londra”, inaugurata la scorsa settimana al Chiostro del Bramante di Roma e visitabile fino al 23 febbraio. Un appuntamento da non perdere per tutti gli estimatori di quei due giganti della pittura messi a confronto per la prima volta in Italia.

 

Ad accogliervi, poco dopo l’ingresso, troverete “Girl with a kitten”, il quadro che ritrae Kathleen Epstein, seconda moglie di Freud, figlia dello scultore statunitense Jacob e di Kathleen Garman. Il gattino viene stretto al collo, la morsa è serrata ed evidenziata dalle nocche bianche e sporgenti delle mani, le sue pupille contengono riflessi di luci che nell’insieme richiamano gli occhi del felino. Seguono “Girl with a Fig Leaf” (1947) e “Narcissus” (1948), opere che dimostrano che Freud usava la pittura per registrare in maniera immediata esperienze di vita personali e sensuali quasi sempre intense.

 

Anche uno come Francis Bacon (1909-1922) amava dipingere sottoponendo i propri soggetti a lunghe sedute, ma per lui la pittura – ci spiega la curatrice della mostra Elena Crippa, Curator of Modern and Contemporary British Art alla Tate – “non doveva né rappresentare né raccontare, ma isolare”. Praticamente la maniera più semplice per rompere con la rappresentazione e la narrazione. In “Study for Portrait” del 1955, ad esempio, che è poi ispirata alla maschera funeraria del poeta/scrittore William Blake vista da Bacon per la prima volta alla National Portrait Gallery, la “Figura”, circondata da uno spazio nero, emerge grazie ai colori più chiari del rosa e del malva, creando così un ibrido tra una maschera di cera e un volto in carne e ossa. Splendido il suo urlo – “l’urlo mi viene bene, dichiarò, ma ho molti problemi col sorriso” – il cane realizzato nel 1952, il volto deformato di Isabel Rawsthorne (1966) e di molti altri fino alla serie “Collapsed Figures” (1957-61). Lavori che anticipano le “teste” di Frank Auerbach, uno dei pochi artisti ancora viventi tra quelli in mostra, come la portoghese Paula Rego, i cui lavori sono nelle stanze successive, tutte perfettamente illuminate con pareti color grigio fumo di Londra, e non certo a caso. Il ballo della Rego è il simbolo estremo di chi ha fatto della pittura una maniera assoluta per lottare contro le ingiustizie. Nel grande quadro c’è la danza della vita di una donna, dall’infanzia alla vecchiaia, messa in contrasto con un edificio fortificato sullo sfondo che ricorda quello usato durante la lunga dittatura di Estado Novo. Per Michael Andrews (1928-1995) invece, la pittura va a indagare – come dimostra con “A Man who suddenly Feel Over” (1952) e in quello in cui si ritrae con la figlia Melanie mentre nuotano – i misteri della natura umana e la posizione dell’individuo nel mondo attraverso l’analisi dei rapporti interpersonali e delle relazioni uomo/natura.

 

Nell’ultima sala, un quadro di piccolissime dimensioni, “Boy Smoking” (1950-51), simbolo della mostra, rappresenta Charlie, un ragazzino che secondo i racconti di Geordie Greig, autore di “Colazione con Lucian Freud” (Mondadori), gli svaligiò la casa senza rubare nulla, ma in realtà amava entrare a casa dei genitori salendo dalla sua finestra. I suoi occhi sono simili a quelli della moglie di Freud, Kathleen, che qui, dopo il gatto, troverete ritratta con il loro cane nel suo quadro più celebre, “Girl with a white dog”(1950-51), in cui l’artista non idealizza la fisicità del corpo né la relazione tra sé e il soggetto. Quella donna che nel quadro ha ancora la fede (i due si lasciarono poco dopo), come il già citato “vicino” Dawson e Leigh Bowery (1991), clubber morto di Aids e simbolo per molti artisti e stilisti, sono “ritratti di persone e non simili alle persone”, come diceva Freud, “qualcosa che non assomiglia a una persona, ma la incarna e basta”.

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