Lo scultore Alberto Giacometti con il pittore irlandese Francis Bacon (foto Graham Keen)

In mostra a Basilea. L'ossessione per l'uomo e la verità di due geni del Novecento

Luca Fiore

La vicinanza delle vicende personali e artistiche di Alberto Giacometti e Francis Bacon diventa un duello per la resa dei conti finale. Con la domanda che non si dovrebbe porre: chi è stato più grande?

“Pur affermando di provare un’ammirazione speciale per Alberto Giacometti, Francis si presentò completamente ubriaco a una cena in suo onore organizzata da Isabel Rawsthorne. Via via che si sbronzava sempre di più, il suo discorso sull’arte degenerò, come al solito, in un monologo involuto sulla vita e sulla morte. Giacometti beveva con moderazione e ascoltava, scrollando di tanto in tanto le spalle: ‘Chi può dirlo?’. Rendendosi conto che stava annoiando quello che lui considerava ‘il più meraviglioso tra tutti gli esseri umani’, Francis sollevò silenziosamente il bordo del tavolo, in alto, sempre più in alto, facendo scivolare a terra tutti piatti, i bicchieri e le posate. Giacometti parve deliziato ‘da questo tipo di risposta all’enigma dell’universo’ e lanciò un grido di gioia”.

  

L’aneddoto, raccontato da Daniel Farson nella biografia di Francis Bacon, potrebbe essere anche esagerato. Capita che i contorni delle vicende si facciano vaghi, se rivisti col filtro di qualche pinta di birra di troppo. Eppure sembra la recensione perfetta di “Bacon-Giacometti”, la grande mostra in corso fino al 2 settembre, alla Fondazione Beyeler di Basilea. Negli spazi puliti e luminosi disegnati da Renzo Piano, va in scena uno degli incontri più elettrici della storia dell’arte del Novecento. È la prima volta che accade, se si fa eccezione per una lussuosa mostra newyorchese che Larry Gagosian aveva apparecchiato dieci anni fa per i suoi clienti facoltosi. Eppure il confronto tra questi due eroi della figurazione era già lì, pronto per essere esplorato. Tra i due ci sono stati molti punti di contatto biografici e stima reciproca. Perché, ciò che li avvicina, è la medesima ossessione per la figura umana, che diventa il luogo in cui la domanda di significato prende violentemente corpo. Se una parola accomuna Bacon e Giacometti è proprio questa: corpo. A questa ne potremmo aggiungere un’altra: verità. Associata all’aggettivo suggerito da Michael Peppiatt nel saggio in catalogo: terribile. Terribile verità.

 

Negli spazi puliti e luminosi disegnati da Renzo Piano, va in scena uno degli incontri più elettrici della storia dell’arte contemporanea

Questo, si dirà, era già abbastanza chiaro prendendo in considerazione ciascuno dei due singolarmente, ma la mostra di Basilea fa reagire tra loro le due poetiche, così vicine per ispirazione e intensità e così diverse negli esiti. Il risultato, non scontato, è un percorso che getta una luce inedita su entrambi e suscita nuove domande. Alberto Giacometti e Francis Bacon erano quasi coetanei, il primo nato nel 1901, il secondo nel 1909. Eppure l’impressione è che appartengano a due generazioni successive. Il che si spiega da una parte con il successo tardivo del pittore irlandese, che inizia a farsi conoscere solo dopo la fine della Seconda guerra mondiale, quando lo scultore è già uno dei protagonisti della scena dell’arte parigina. E dall’altra per il fatto che Giacometti muore sessantacinquenne, 26 anni prima della scomparsa dell’amico pittore.

 

C’è una lettera di Bacon al critico David Sylvester, scritta nel 1955 durante un soggiorno all’Hôtel Martinez a Cannes, in cui si fa cenno a un incontro mancato con lo scultore: “Stavo cenando in un ristorante sul porto e Giacometti, la moglie e due altre persone erano al tavolo di fianco. Ho sentito qualcuno dire “les anglais deviennent comme les framboises dans le solei” e, guardandomi in giro, capii che era stato lui a dirlo. Sembrava amichevole, ma non ho voluto parlargli. Non sapevo che andasse in luoghi così comuni come Cannes”. E’ l’anno in cui lo stesso Sylvester firma un saggio per il catalogo della retrospettiva che l’Arts Council di Londra dedica a Giacometti. Bacon guarda con interesse l’evoluzione della scena dell’arte parigina, che per lui significa tenere d’occhio Picasso e, appunto, Giacometti: compra cataloghi, parla con amici francofili, sfoglia i Cahiers d’art che compra da Zwemmer’s, la libreria internazionale di Charing Cross.

 

Nel decennio successivo la situazione è radicalmente cambiata: la Tate Gallery aveva dedicato una retrospettiva a Bacon nel 1962 e a Giacometti nel 1965. E’ in questo periodo che i due iniziano a conoscersi e a frequentarsi. L’incontro è propiziato dal medesimo interesse per la figurazione e da comuni amici. La principale è Isabelle Rawsthorne, artista e modella inglese, amante della vita mondana e forte bevitrice. Aveva conosciuto Giacometti negli anni Trenta a Parigi ed era stata prima sua modella e poi, per un breve periodo, amante. Isabelle sarà il soggetto anche di alcuni ritratti di Bacon. Ed è lei che rivendica d’aver fatto incontrare i due artisti. L’occasione è il periodo in cui Giacometti frequenta Londra per la retrospettiva alla Tate. La donna organizza una serie di cene a Fitzrovia e a Soho: ci sono i due artisti, che invitano comuni amici come lo scrittore Michel Leiris, Sylvester e il nuovo amante di Bacon, George Dyer.

 

Le retrospettive organizzate dalla Tate Gallery nel 1962 e 1965: è in questo periodo che i due iniziano a conoscersi e a frequentarsi

Le serate si prolungano fino a notte tarda: iniziano in ristoranti come il Wheeler’s, famoso per le ostriche di Whitstable e le sogliole di Dover, o l’Etoile su Charlotte Street. Poi si continua in club come il Gargoyle o il Colony Room, vicino alla casa di Bacon, dove il barman è abituato a sentirsi ordinare dal pittore quantità infinite di champagne. Giacometti fumava tanto quanto Bacon beveva. Nel frattempo si parlava dell’arte, della vita e dell’enigma dell’esistenza. E quando le parole non bastavano più, sappiamo come finiva.

 

La mostra di Basilea si apre con un colpo di poesia: il confronto tra Le Nez di Giacometti e Head VI di Bacon. Sono dello stesso anno, il 1949. La prima è una maschera dal collo sottile e il naso lunghissimo, la cui espressione è segnata da un ghigno esagerato. È appesa dentro una struttura-gabbia con uno spago chiaro. L’altra è una delle celebri citazioni che Bacon fa dell’Innocenzo X di Diego Velázquez. La figura è inquadrata, anche qui, da una gabbia. Il volto sembra risucchiato in alto. E dalla bocca esce lo stesso grido della donna urlante de La Corazzata Potemkin di Sergej Ejzenštejn. Che rapporto c’è tra quelle due smorfie? Che significato hanno? E’ dolore? E’ rabbia? E’ orrore? Perché quelle figure sono entrambe chiuse in una gabbia? Sono interrogativi che ci si porta per tutto il percorso, pensato per dar conto dei punti di contatto tra i due artisti.

 


La mostra "Bacon-Giacometti" resterà aperta fino al 2 settembre alla Fondazione Beyeler di Basilea (foto dell'autore)


 

I primi due sono quelli più immediati: l’incontro con Isabelle Rawsthorne. E poi, appunto, il tema della gabbia, che Bacon prende tout-court da Giacometti. C’è la stanza dedicata all’ossessione per il ritratto (difficile tener conto del numero delle teste di Giacometti, da quelle alte pochi centimetri, fino alle monumentali). C’è poi sala che invita a riflettere sul rapporto tra tempo e spazio, la più impressionate: vedremo ancora tanti e tali capolavori accostati con una simile eleganza e intelligenza? Di Giacometti c’è L’Homme qui marche II del 1960, nella versione in gesso e in quella in bronzo. Poi due monumentali Grande femme dello stesso anno. Cinque Femme de Venice, due in gesso e tre in bronzo. E di Bacon: cinque opere singole, tra cui uno sconvolgente Study for a bullfight n.2 del 1969 e tre trittici da capogiro. In particolare, quello in memoria di George Dyer, dipinto dopo il suicidio, di proprietà della Beyeler, qui, a confronto diretto con gli altri, si mostra in tutta la sua struggente forza. Sono accostamenti tematici che, pur restando alla superficie dell’opera di entrambi, danno la possibilità, anche per la maestosità, il numero, le dimensioni e la qualità dei pezzi esposti, di verificare la profonda comunanza di intenti.

 

Giacometti fumava tanto quanto Bacon beveva. Nel frattempo si parlava dell’arte, della vita e dell’enigma dell’esistenza 

“Ci sono momenti che si possono chiamare di crisi e che sono i soli che contino in una vita. Sono momenti in cui il fuori sembra rispondere all’improvviso all’intimazione che gli lanciamo dal dentro, in cui il mondo esterno si apre perché tra lui e il nostro cuore si stabilisca una subitanea comunicazione. Ho alcuni ricordi di questo genere nella mia vita e tutti si collegano ad eventi apparentemente futili e, se vogliamo, gratuiti. La poesia non può sprigionarsi che da simili ‘crisi’ e solo le opere che ne danno degli equivalenti sono quelle che contano”. Queste parole, scritte da Michel Leiris nel 1929 per le prime opere di Giacometti, si capiscono meglio a Basilea guardando il ritratto che di Leiris fa Bacon nel 1976.

 

“Il gran tema dell’arte di Giacometti fu il seguente: dove e come l’uomo e, con l’uomo, l’intera creazione se ne stia collocata; dove, come e perché. La domanda martella ogni foglio su cui Giacometti disegna; ogni tela su cui s’arrischia di collocare le sue quotidiane e insieme enigmatiche figure (quelle figure così presenti eppure così lontane), come se per provar a se stesse d’esistere facessero di continuo la spola tra l’oggi e il più precipitante ieri); e altresì ogni immagine che tenta di metter su con la creta e poi gettare nel bronzo. Il martellamento non conosce requie. Percuote fogli, tele e crete da ogni parte; talvolta sembra addirittura farle scomparire, come se, non ricevendo risposta, l’artista preferisse distruggere e così annullare la sua opera. E’ da questa impossibilità ad arrestare l’interrogazione è lei, la domanda, che l’opera di Giacometti sembra collocarsi, tutta e intera, sotto il segno del “non-finito”; ma è un “non-finito” che mima o, addirittura, eguaglia il non-finire (anzi, il non poter finire) dell’interrogazione e della domanda che riguarda le ragioni dell’esistere”. Qui invece è Giovanni Testori che sembra leggere l’abisso dell’animo di Bacon.

 

Quella di Basilea è una mostra che tenta di documentare le vicinanze formali e tematiche delle due vicende umane e artistiche, finendo per mostrare qtalcosa che non si vede, ma che unisce i due artisti più di qualunque altra comunanza. E’ quasi inevitabile trasformare questo accostamento nel duello finale per la resa dei conti e porre la domanda che non si dovrebbe porre: chi è più grande? Interrogativo paradossale, visto che entrambi hanno sempre descritto gli esiti del loro lavoro come un susseguirsi di fallimenti. Chi dunque è stato più perfetto nel proprio disastro? Chi è riuscito a mostrare in modo più definitivo la sconfitta dell’arte nei confronti della verità?

  

Entrambi hanno sempre descritto gli esiti del loro lavoro come un susseguirsi di fallimenti. Chi è stato più perfetto nel proprio disastro?

 

Si è detto: il confronto sarebbe tra grandezze non omogenee, perché la vicenda dell’uno continua per quasi trent’anni dopo quella dell’altro. Come si sarebbe evoluta l’arte di Giacometti se avesse continuato a lavorare fino all’inizio degli anni Novanta? Non lo sappiamo. Il tempo che passa spesso gioca contro la freschezza dell’ispirazione. Ma non per i grandissimi. E non solo per questo il duello non è ad armi pari. Se la pittura di Bacon è esplosiva, la scultura di Giacometti è implosiva. Se la prima è urlante, la seconda è silenziosa. Le carneficine del pittore irlandese sono sì posizionate in un contesto di contenuta fissità classica, ma perché lo sconvolgimento e la deformazione possa divampare in tutta la sua incontenibilità. La ricerca della mimesi esistenziale di Giacometti, quella che tenta, attraverso la riproduzione precisa dell’esteriorità (soprattutto e sommamente nei ritratti), di raffigurare l’intimo dramma dell’esistenza, finisce per porre a rischio l’esistenza stessa dell’opera d’arte. La materia si disidrata, le impronte di pollice sulla creta privano, colpo dopo colpo, materia alla rappresentazione.

 

Così ci troviamo davanti a una pittura che tenta in ogni modo di alzare i decibel e a una scultura che cerca con tutti i mezzi di non scomparire. In un dialogo tra chi urla e chi sussurra è facile immaginare quale sia la voce a imporsi. Eppure in questa paradossale gara di realismo (perché è di realismo si tratta: quello che sfida la realtà attraverso la sua rappresentazione, e quello che afferma la realtà proprio perché postula la possibilità di una rappresentazione) non è detto che Bacon esca vincitore. Accade come in quel ristorante di Londra. Tutti avranno notato l’irlandese che rovescia il tavolo. Pochi lo svizzero che reagisce divertito.