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Il solitario “bellanasco”, pittore autentico di un'Italia che non esiste più

Luca Fiore

In morte di Giancarlo Vitali (1929-2018)

"Il bellanasco” lo chiamava Giovanni Testori. E poi aggiungeva: “lombardone, lombardissimo”. Indicava di Giancarlo Vitali, pittore di Bellano, località sulla sponda lecchese del Lago di Como, scomparso mercoledì a 88 anni, un destino legato alla sua regione, al suo paese, alla sua casa. Perfino al suo stesso studio. Solitario, burbero, lontano da qualsiasi giro mondano. Un volto severo, scavato da rughe profonde, quasi fosse un Beckett o un Giacometti lariano.

 

Questo suo grande isolamento, rotto, a metà degli anni Ottanta, grazie all’interessamento del critico novatese, lo rende un caso singolare nel panorama della pittura italiana degli ultimi decenni.

 

Figlio di pescatori, riesce a lungo a mantenere la famiglia con i tanti dipinti di genere realizzati su commissione. Si dice ne sfornasse anche dieci al giorno. Al contempo, tuttavia, aveva mantenuto una ricerca personalissima. Le fotografie di alcuni suoi tentativi finiscono, chissà come, nelle mani di Testori, che va subito a Bellano a conoscere l’artista. A colpirlo, scrive sul Corriere della Sera nel 1984, è soprattutto un quadro che raffigura un coniglio “morto; anzi, scuoiato; deposto, ecco, su un lenzuolo, come una vittima”. Un soggetto su cui lo stesso Testori pittore si era esercitato dagli anni Sessanta.

 

L’animo del critico, facile agli entusiasmi, si infiamma. Quella pittura veloce, franta e nervosa, gli richiama folli amori: Chaïm Soutine e Varlin. Grande disegnatore, la sua è una voce dal tono corposo, sicuro, autorevole. L’altra opera che conquista il novatese è il trittico del toro squartato. E’ un confronto sfacciato con i picchi della storia dell’arte: ancora Soutine, ma anche Rembrandt e Bacon. Jenny Saville, ma vent’anni anni dopo. E’ un’immagine a cui Testori dedica una cartella di poesie: “Solo toro, / sangue-oro, / dici, / testifichi anzi: / l’avete fatto anche a colui / che ci salvava”. Per stima e riconoscenza l’artista dedica al suo mentore ritratti che sono secondi, forse, solo a quelli gli fecero Varlin e Fetting.

 

Ma quelli che popolano il mondo di Vitali, per la grande parte, sono personaggi di un’Italia che non esiste più: il sagrestano, la vecchia che spenna i polli, la donna col gatto in testa. C’è l’ironia e il dramma. Il sudore e la malinconia. E poi i pesci in padella, i funghi, i tovaglioli. Una teoria di nature morte legate alla concretezza della quotidianità di un sonnolento villaggio lariano. L’energia pittorica inferta dai suoi pennelli riesce a rendere elettrico un lavoro che, in qualche modo, resta legato a stilemi da primo Novecento. Questo, per certi versi, lo ha spinto in un angolo, rendendolo facile preda della schiera dei difensori della pittura-pittura che, troppo spesso, confondono il passatismo con la difesa della tradizione. A Vitali certi discorsi non sembravano interessare. Sapeva di essere fuori moda, ma non faceva di questo una rivendicazione.

 

L’estate scorsa Milano gli ha reso omaggio con un’ultima mostra in quattro sedi prestigiose: Palazzo Reale, il Museo civico di storia naturale, il Castello Sforzesco e Casa Manzoni. A curarla è stato il figlio Velasco, anche lui importante pittore, che ha voluto, del padre, mostrare anche la bulimia pittorica, allestendo una poderosa retrospettiva. Al progetto ha partecipato Peter Greenawey, che si disse divertito perché Vitali, che da qualche anno aveva smesso di dipingere, sembrava poco interessato alla sua celebrazione milanese. Coglieva, forse, non solo l’indole dell’uomo, ma anche quella della sua pittura, che sgorgava da un’urgenza solitaria che ne ha preservato l’autenticità.

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