Gattopardo (Wikipedia)

Non solo principi e dinastie

Nadia Terranova

La seduzione del romanzo storico è ricostruire un universo perduto mettendo il lettore in una relazione di intimità assoluta con i protagonisti

La saga dei Florio e la separazione fra romanzo storico e romanzo famigliare, che risulta quasi sempre incomprensibile

Del formidabile successo della saga dei Florio, scritta da Stefania Auci e pubblicata dalla casa editrice Nord, di questo primo volume al quale seguirà un secondo (e ultimo) per la costruzione di un dittico di storia non solo commerciale dell’isola, bisogna dire subito così: che il nuovo Grande Romanzo Siciliano l’ha scritto una donna, e che la separazione fra romanzo storico e romanzo famigliare risulta quasi sempre incomprensibile (se “l’azione interna al romanzo non è che una lotta contro il potere del tempo”, come scrive Lukács, non possiamo non notare che le famiglie sono il luogo magico dentro cui lo scorrere degli anni si fa più facilmente misurabile). Prendiamo il persistente luogo comune secondo il quale le donne saprebbero scrivere “soltanto” di ciò che accade dentro le case e fra le lenzuola, di legami d’amore e sensualità, di figli e discendenza, di tradimenti e desideri, mentre gli uomini sarebbero più portati a parlare di politica, di merce, di mestieri: la distinzione esiste solo nella malafede di chi vuole mettere l’accento sull’una o sull’altra cosa, perché in letteratura il confine non esiste.

 

E’ grande lo scrittore che prima stana la disparità tra essere e apparire e poi in quella crepa si immerge senza pietà

“Un giorno mi sono resa conto che, mentre le iniziative imprenditoriali dei Florio erano relativamente note – dalle spezie allo zolfo, dalle navi al tonno, dal ferro al Marsala –, la loro vicenda umana rimaneva avvolta nel mistero”, ha detto Auci: il segreto del romanzo storico, quando è brillante, quando è riuscito, quando porta qualcosa di nuovo a ciò che già sappiamo, consiste non tanto e non solo nel ricostruire un universo perduto, ma nel mettere il lettore in una relazione di intimità assoluta con i protagonisti, mostrandogli il lato oscuro, comico, segreto, infame dei grandi personaggi, gli aspetti meno mitizzati e più sorprendentemente antropici (nel Rumore del mondo di Benedetta Cibrario, Cavour appare di schiena: ecco una metafora azzeccata), facendo emergere bassezze, mediocrità, meschinità, débâcle, fragilità. Succede con Mussolini in M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, con Lenin in Di questo amore non si deve sapere di Ritanna Armeni, con Crispi nella Ragazza di Marsiglia di Maria Attanasio, con i nazisti nelle Benevole di Jonathan Littell e nelle Assaggiatrici di Rosella Postorino, con l’imperatore Adriano visto da Marguerite Yourcenar: in tutti questi casi la letteratura ci svela che dentro ogni grande uomo c’è un piccolo uomo ed è grande lo scrittore che, dietro la gigantografia mostrata dai manuali, prima stana la disparità tra essere e apparire e poi in quella crepa si immerge senza pietà.

 

Il Grande Romanzo Siciliano questa volta comincia in Calabria, e la famiglia simbolo dell’isola per eccellenza ha radici continentali

Così, i Florio che da Bagnara Calabra si stabilirono a Palermo prendendosi la città e poi l’isola e infine tutto quello che volevano, riuscendo in ogni impresa, nei Leoni di Sicilia sono ritratti come una qualsiasi famiglia con una spinta arrivista e una facciata ammirevole, una dinastia dentro la quale emergono miserie, avidità, ambizioni, amori e sbagli, un’ordinaria famiglia straordinaria dove tutto è eccessivo, ogni cosa è altissima e megalomane (e quanto è siciliana la megalomania, quanto). La saga dei Florio ci riguarda, scavando dentro tutto ciò che delle nostre famiglie non abbiamo piacere di rievocare – anche perché a bilanciare le bassezze di solito non c’è nessuna grandiosità, le nostre nonne e madri non hanno mica spedito il tonno sott’olio in tutto il mondo, al massimo a qualche figlio o nipote universitario fuori sede – si può fare epica anche di quello, sia chiaro, ma per un’altra via.

 

"La mia relazione con Palermo è quella di un’innamorata gelosa e possessiva”, scrive Stefania Auci, trapanese trapiantata

Ci sarebbe anche da notare, non troppo a margine, che il Grande Romanzo Siciliano questa volta comincia in Calabria, che la famiglia simbolo dell’isola per eccellenza ha radici continentali, e che la più profonda storia di Palermo la sta firmando una scrittrice di Trapani: l’identità, oggi come ieri, è una parola in movimento, mai stabile, appropriarsi della terra d’arrivo è un gesto di affermazione di sé e, insieme, di arricchimento di quel mondo, espandersi è un processo che implica azione tentacolare e visionarietà. Stefania Auci, trapanese trapiantata, scrive: “La mia relazione con Palermo è quella di un’innamorata gelosa e possessiva”, sta parlando di sé ma anche dei suoi personaggi, che per duecento anni hanno pagato quella che ancora oggi viene ritenuta la volgarità dell’origine – il sangue feudale fa sbroccare tuttora qualcuno con malcelato disprezzo: “eh, ma quei Florio non sono veramente siciliani”. I Florio hanno inventato tutto (d’accordo, hanno rilanciato e rilevato, più che inventato di sana pianta, ovvero hanno fatto imprenditoria intuendo il confine del vendibile, oltrepassandolo e moltiplicando ogni possibilità su scala inaudita): spezie, zolfo, vino, tonno, eppure – o proprio per questo – “non sono veramente siciliani”. In quella frase, pronunciata con spregio, c’è tutta l’anima dell’isola: non c’è nulla di meno tradizionalmente siciliano dell’idea che la ricchezza possa venire non dalle proprietà, dagli immobili e dalla gestione di ciò che si è acquisito per diritto di famiglia, cioè diritto divino, ma da idee, ingegno, conquista, vendita (orrore!) e lavoro quotidiano.

 

Il Grande Romanzo Siciliano questa volta comincia in Calabria, e la famiglia simbolo dell’isola per eccellenza ha radici continentali

Nella letteratura siciliana, quelli che incrementano le loro ricchezze anziché scialacquarle o mantenerle (i soldi sono eleganti in società solo a patto di essere stati ereditati, giammai guadagnati; e di quel primo guadagno, che per forza dev’esserci stato, bisogna a tutti i costi che sia perduta l’origine), e in generale quelli che pensano troppo alla “roba”, come ci ha spiegato bene Verga, sono perlopiù ritratti come meschini e di solito non fanno una bella fine. Invece i Florio, questi Briatore dell’Ottocento, non solo si sicilianizzano attraverso il fare, il verbo meno siciliano che c’è, ma addirittura sicilianizzano il mondo, diventano ambasciatori e simbolo dell’isola. Così, mentre il mondo dei Viceré e del Gattopardo decade, quello dei Leoni di Sicilia ascende; dove gli Uzeda e i Salina si fermano a guardare, e quindi a subire, il crollo perpetuo dell’impero, i Florio agiscono e costruiscono un impero parallelo; dove la nobiltà muore, il commercio prospera; è l’eterna lotta tra privilegio di nascita e di conquista che non si risolve mai, neanche quando i Florio diventano dinastia a loro volta, perché al fondo continua a echeggiare quella frase, “non sono veramente siciliani.” Scrive Salvatore Silvano Nigro nel Principe fulvo (Sellerio): “Nel Gattopardo, l’ascesa dei parvenu incide sull’equilibrio tra etica ed estetica sul quale è fondata la civiltà delle buone maniere. Non è in questione solamente un frac malmesso. Cambia il vocabolario della civiltà. Nel senso che le stesse parole acquistano significati diversi se non opposti. La parola “pudicizia” era legata, nel mondo aristocratico, all’idea di sprezzatura: all’arte di “nascondere”. Il rococò delle case patrizie prediligeva, tra rosati e “nodi di fiori”, modanature e decori color oro che però andavano castigati: “Non era la doratura sfacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunto, pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il proprio costo”. Le “facciatine Impero” dei borghesi ricchi (e degli aristocratici in casacca borghese) sono anch’esse “pudiche”, ma per il color bianco e la castigatezza architettonica che le allontana dal “brio” delle addossate costruzioni barocche; e allontanandole, le fa estranee al contesto: leziose, con le loro “facciatine”, e affettate”.

 

Meglio di così non si poteva dire: la storia stessa, quella con la esse maiuscola, è famiglia, è architettura, è arredo e suppellettile, è decisione segreta e potente.

 

Torniamo così alle dimore, alle segrete stanze, quelle dove si fa la storia, con tutti i suoi strascichi. La politica, si diceva, è una questione di ciò che accade in certi appartamenti – altrimenti perché Maria Bellonci avrebbe intitolato il suo romanzo Rinascimento privato? Le descrizioni delle case siciliane sono già letteratura, sono già trama: “Il principe di Salina abita dimore barocche e rococò ancora frequentate, sulle volte istoriate e sulle piastrelle maiolicate dei pavimenti, delle familiari divinità dell’Olimpo e delle congeniali favole degli antichi eroi. Da esse guarda con sospetto, preoccupazione e sarcasmo, alle acquisizioni neoclassiche della borghesia. Lui vive in un altro spazio. In un altro tempo. In un’altra arte”, scrive ancora Nigro.

 

I Florio, questi Briatore dell’Ottocento, si sicilianizzano attraverso il fare, il verbo meno siciliano che c’è

Nei Viceré, Federico De Roberto racconta Villa Francalanza, e vale la pena riportare la pagina intera perché quelle righe contengono tutta la storia di un’aristocrazia capricciosamente incapace, un’aristocrazia che consuma e sfascia mura, denari e terreni: “La villa degli Uzeda era tanto grande da capire un reggimento di soldati, non che gl’invitati del principe; ma, come il palazzo in città, a furia di modificazioni e di successivi riadattamenti, pareva composta di parecchie fette di fabbriche accozzate a casaccio: non c’erano due finestre dello stesso disegno né due facciate dello stesso colore; la distribuzione interna pareva l’opera di un pazzo, tante volte era stata mutata. Altrettanto avevano fatto dell’annesso podere. Un tempo, sotto il principe Giacomo XIII, questo era quasi tutto un giardino veramente signorile; amante dei fiori, il principe aveva sostenuto per essi una delle tante spese folli che erano state causa della sua rovina: aveva fatto scavare un pozzo, per trovare l’acqua, a traverso le secolari lave del Mongibello, fino alla profondità di cento canne; lavoro tutto di braccia, di colpi di picone, durato qualcosa come tre anni. Trovata finalmente l’acqua, che un bindolo tirava su, egli giudicò che la cultura della vigna poteva vantaggiosamente esser sostituita da quella degli agrumi: quindi sradicò, in quel tratto del podere non ancora trasformato in giardino, tutte quante le viti per piantare aranci e limoni. Così le spese sostenute da suo nonno per costruire il palmento e la cantina andarono perdute. Ma, venuta donna Teresa, ogni cosa fu messa nuovamente sossopra. I fiori essendo “roba che non si mangia” rose e gelsomini furono divelti, i pilastri ridotti a mattoni, la serra trasformata in istalla pei muli; e il vino avendo maggior prezzo degli agrumi, i bei piedi d’aranci e di limoni tirati su con tanta fatica furono sacrificati alle viti. Restò appena quattro palmi di giardino, tra il cancello e la casa, e tanti piedi d’agrumi quanti bastavano a far la limonata in tempo d’estate. Così tutte le somme buttate nel pozzo furono buttate davvero nel pozzo”.

 

Nella pagina successiva ci viene raccontato un principino lieto di passare le giornate a zappare la terra, e noi grottescamente ridiamo, perché aveva ragione Leonardo Sciascia: la cifra dei Viceré è l’ironia, “un’ironia che nasceva dal confronto e contraddizione tra gli ideali cui si apriva l’Italia appena unificata – o almeno quella parte della nazione in grado e in animo di averne – e la loro effettuale inattuazione e inattuabilità”, così scriveva nell’articolo in cui rimproverava a Benedetto Croce di non aver capito De Roberto e di essere stato la causa della sua troppo scarsa fortuna.

 

Come il tonno nella tonnara, le dinastie siciliane occupano le case in cui diventano mito, e le consegnano alla leggenda e alla letteratura

Di case, di ville, giardini, sale da pranzo, e di come ci sia una sola casa nella vita (tutte le altre “sono state dei tetti che hanno servito a ripararmi dalla pioggia e dal sole, ma non delle case nel senso arcaico e venerabile della parola”), di tutto questo scrive Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel racconto I luoghi della mia prima infanzia, in cui rimpiange l’amata dimora di Palermo, distrutta dai bombardamenti, e riattraversa le dipendenze in campagna: Santa Margherita Belice, Bagheria, Torretta, Raitano. Dalla casa di Santa Margherita viene fuori un oggetto: “Al mio capezzale pendeva una specie di bacheca Luigi XVI in legno bianco, che racchiudeva tre statuine in avorio, la Sacra Famiglia, su fondo cremisi. Questa bacheca si è miracolosamente salvata e pende adesso al capezzale del letto nella stanza in cui dormo nella villa dei miei cugini Piccolo a Capo d’Orlando. In questa villa, del resto, ritrovo non soltanto la Sacra Famiglia, della mia infanzia, ma una traccia affievolita, certo, ma insormontabile, della mia fanciullezza, e perciò mi piace tanto andarvi”.

 

Le parole acquistano significati diversi, se non opposti. La parola “pudicizia” nel mondo aristocratico era legata all’arte di “nascondere”

La bacheca pende ancora al capezzale nella stanza di Tomasi a Villa Piccolo; per chi poi, affascinato dal racconto, volesse continuare a stare in compagnia del piccolo Giuseppe, c’è un romanzo di Simona Lo Iacono, L’albatro, pubblicato da Neri Pozza, che ne ricostruisce l’infanzia. E se nel racconto di Tomasi si fa cenno all’amicizia con i Florio e viene citata la mitologica Franca (di cui Auci narrerà nel secondo volume), nelle pagine finali dei Leoni di Sicilia leggiamo di un’altra villa, ai colli di San Lorenzo. attraverso lo sguardo e la vita di uno dei personaggi più importanti, Giulia: “Raggiunge la balaustra che separa la veranda dal giardino, guarda verso gli alberi. Tra le montagne, una lama di sole. Il temporale ha ripulito l’aria dalla sabbia portata dallo scirocco africano, quella maledetta sabbia che s’insinua ovunque. Giulia non ama vivere lì. Una villa enorme, a due piani, con una sala da ballo, una foresteria, le scuderie e una tenuta agricola. Vincenzo l’ha comprata più di vent’anni or sono, prima di sposarla. Certo, è elegante, una dimora degna di un aristocratico. E infatti è accanto alla villa del principe di Lampedusa e alla palazzina di caccia dei Borbone, la Palazzina Cinese. E’ un luogo ameno, pieno di agrumeti, con una strada alberata che porta verso il mare e verso Mondello, che taglia in due la tenuta della Favorita. Vincenzo, e soprattutto Ignazio, ormai la preferisce ai Quattro Pizzi nella stagione estiva. Ma lei, il suo cuore, la memoria, sono impigliati nelle reti che circondano la tonnara dell’Arenella. Fa parte della sua vita, del suo modo di essere; se potesse, farebbe i bagagli e lascerebbe soli i suoi due uomini per tornarsene in quel luogo felice”.

 

Di case, di ville, giardini, sale da pranzo scrive Tomasi di Lampedusa nel racconto “I luoghi della mia prima infanzia”

Così, nella distanza ingestibile tra l’io narrante di un principe che per esplorare la parola “casa” scrive un racconto di ville magiche e tenute con chiese annesse, e un personaggio femminile che si strugge perché “casa” è dove si lavora il tonno, emerge la polarizzazione di una storia letteraria siciliana a cui mancava uno dei punti cardinali. Auci l’ha scritto, e l’ha fornito a completezza di un mosaico. Ha anche spiegato come si debba intendere quella casa vagheggiata da Giulia Florio, e del perché quel luogo sia, per gli isolani, un mito pari a quello di Triscele o di Scilla e Cariddi: “La tonnara non è solo un edificio, il marfaraggio. E’ anche un apparato di reti a camere progressive: un metodo inventato dagli arabi e tramandato agli spagnoli, che trova la sua apoteosi in Sicilia. La tonnara è un rito. La tonnara è un luogo in cui famiglie intere hanno vissuto per centinaia di anni: gli uomini sul mare, le donne negli stabilimenti. D’inverno, si curano le navi e si rammendano le reti. In primavera e in estate, ci si occupa della mattanza o di lavorare il pescato. Lo chiamano ‘il maiale del mare’, questo bestione dallo sguardo stolido, perché di lui non si butta via nulla: non le carni rosse e morbide che vengono lavorate, messe sotto sale e vendute in grandi barili. Non le ossa e la pelle che, essiccate e triturate, sono usate come concime. Non il grasso, usato per l’illuminazione. Non il seme, che diventa preziosa bottarga. La tonnara vive perché esiste il tonno”.

 

Come il tonno nella tonnara, le dinastie siciliane occupano le case in cui diventano mito, e le consegnano alla leggenda e alla letteratura senza che si possa fare a meno di nessuno degli occupanti, senza che se ne possa buttare niente. Capita che di una famiglia, reale o inventata, un personaggio sfavilli più di altri, ma in realtà lo si può comprendere solo incastonandolo nel puzzle, tenendo conto di un sangue che non si può scomporre, impastato in parti uguali di suppellettili e uliveti, finestre barocche e giardini magici, bisogno di isolamento e ritualità corale, festa e conflitto, sorvegliato da un ineluttabile senso del tragico, dalla percezione della fine. Perché tutto finisce e tutto decade, persino quei Florio che non avevano fatto altro che ascendere. Ma intanto: punti lo sguardo su Giuseppe Tomasi e ti spuntano i Cutò, i Piccolo, i Cianciafara; leggi degli Uzeda di Francalanza e ogni cosa si definisce grazie al personaggio in absentia, Teresa; pensi a Franca Florio e non puoi capirla se non ci arrivi dagli Ignazio e dai Vincenzo. E mentre mille molecole individuali vanno a confluire in un destino famigliare, di ciascun personaggio si potrebbe scrivere un nuovo romanzo, e ancora ne resterebbero escrescenze narrabili e magnifiche. Così, nel racconto più bello di tutti i tempi, quello che secondo Nigro “presuppone i predicati molesti dell’orizzonte storico”, ovvero Lighea di Tomasi di Lampedusa, il giovane Paolo si racconta al vecchio grecista, il senatore La Ciura, e nell’imbarazzo intimidito del doversi presentare non trova di meglio che riassumere in sé le storie di tutte le case, di tutte le cose: “Confessai che ero proprio un Corbera di Salina, anzi il solo esemplare superstite di questa famiglia; tutti i fasti, tutti i peccati, tutti i canoni inesatti, tutti i pesi non pagati, tutte le Gattoparderie insomma erano concentrate in me solo”. Così è per lui e per ogni esponente dei Corbera, dei Lampedusa, dei Salina, dei Piccolo, degli Uzeda, dei Florio e di ciascuna delle stirpi, vere o trasfigurate poco importa, che hanno fatto e narrato l’isola fino a inventarla davvero.