Una scena del Gattopardo di Luchino Visconti

Omaggio al grande costumista Piero Tosi

Fabiana Giacomotti

Baluardo contro il pressapochismo elevato a dogma

Milano. Nel settembre del 2013 ci trovavamo sul set fotografico del catalogo della mostra celebrativa per i sessant’anni della Rai che si sarebbe tenuta da lì a qualche mese; quasi tutte le sartorie, i costumisti e gli stilisti che nel tempo avevano collaborato con le reti nazionali si erano premurate di inviare i costumi, gli abiti e le acconciature che erano state loro richieste. Da quel seminterrato sull’Ostiense non ci si muoveva da giorni. Fiorenzo Niccoli scattava con il suo assistente un pezzo dopo l’altro; Sergio Colantuoni attendeva allo styling. Verso le quattro del pomeriggio del secondo giorno di shooting squillò il cellulare. “Sono l’assistente xxx del signor Armani. Vorrebbe sapere come stanno andando gli scatti e, eventualmente, vedere le prove”. “Appena possibile volentieri. C’è qui il maestro Tosi che supervisiona il set, e per coincidenza stiamo proprio scattando gli abiti del signor Armani: Piero ci ha fatto un grande onore, non vorremmo stancarlo”. Lunga pausa. Rumore di passi. “Dice il signor Armani che va bene così senz’altro. Chiede la gentilezza di porgere i suoi più cari saluti al maestro”. Clic. Il Grande Perfezionista della moda si inchinava al Grande Perfezionista del costume nei modi consoni, cioè riponendo in lui totale fiducia.

 

Il “senza se e senza ma” di cui l’eccellenza è garante, e che anni di cialtronismo istituzionale e di pressappochismo comune ci hanno disabituati a riconoscere e, soprattutto, a difendere. “Mi fece cercare per settimane un certo punto di seta color tortora; non gli andava mai bene”, mi raccontò tempo fa una sua assistente di un tempo che oggi firma tutti gli spettacoli di Daniel Ezralow e Adriano Celentano, Silvia Frattolillo: “A un certo punto, esausta, gli chiesi a che cosa servisse quel tessuto. Era per la fodera di un cappello. Una grande lezione che non ho mai dimenticato”. Oggi che Piero Tosi, “Pierino”, non c’è più, e che gli amici e chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo stanno condividendo su stampa e social media gli aneddoti e i ricordi che dispensava con quel suo eloquio sottile, preciso e pungente, viene da domandarsi come riusciremo a sopravvivere nella società dell’autoassoluzione e della faciloneria elevata a dogma. “Chi fa sbaglia”, come ti dice lo studente che bastava avesse consultato il libro in biblioteca invece di copia-incollare la prima citazione comparsa su Google per non mandare in stampa un’idiozia; “Chi fa sbaglia”, apre le braccia sconsolato il tecnico del computer che per la terza volta ha sbagliato la copertura del wifi in casa, ma tutte le volte si è fatto pagare; “Chi fa sbaglia”, come osserva il vicepremier Matteo Salvini dopo avere chiamato la crisi del governo con poteri che non ha e come chiosa in ogni occasione, subordinando la locuzione al nemico di turno.

 

“Solo Renzi e Monti non sbagliavano”, disse a maggio, dopo una puntata di “Porta a Porta” sul tema del risparmio da cui il governo gialloverde non era uscito benissimo. “Solo Gesù Cristo e Renzi non sbagliano”, ha precisato Salvini l’altra settimana, e traetene le conclusioni che volete (“Te non fai e riesci comunque a sbagliare. Un fenomeno”, la risposta che gli ha dato tempo fa un tale RobertoV insieme ad altri su Twitter, ed è talmente azzeccata, nel ritmo e nella costruzione, che ci perdonerete se lasciamo il pronome in gergo dialettale, così com’è). Dunque, a 92 anni ci ha lasciati Piero Tosi, “Pierino” per gli intimi, premio Oscar riluttante, vincitore di moltissimi tributi nascosti alla vista dei visitatori nel suo appartamentino a due passi dal Tevere, vittima di un continuo, rapinoso omaggio da parte di colleghi di cinema e stilisti ossessionati dal suo genio e dal rigoroso garbo con cui aveva vestito Maria Callas, Silvana Mangano, Sophia Loren e Claudia Cardinale. Se ne è andato dopo settimane di progressivo e benedetto torpore, in un’alba afosissima di metà agosto, con la città deserta e silenziosa, e parrebbe preordinato pure questo, come osserva il “divino” Quirino Conti, che con lui aveva realizzato qualche anno fa un leggiadro “Matrimonio Segreto” al Teatro Caio Melisso di Spoleto, restaurato e sostenuto da Carla Fendi. Addolora riguardare le foto di quella bella serata adesso, quello scatto improvvisato e di impianto sorprendentemente biblico in cui Tosi riceve l’omaggio di una delle cantanti, quasi inginocchiata nella sua polonaise color pesca, mentre Carla Fendi e Conti osservano dall’alto, affettuosi e complici: sono passati solo sei anni, e due di quelle figure non sono più qui a sostenere la bellezza, a dispensarla con il suo prerequisito indispensabile: la precisione da cui sgorga l’armonia. La bellezza è fatica, l’obiettivo si raggiunge con l’impegno, il fare non postula l’errore, ma il miglioramento progressivo. Si fa per non sbagliare più. Tranne in un caso, che Tosi osservò in quel famoso pomeriggio sull’Ostiense, il mento appoggiato al bastone, osservandoci mentre lottavamo con una bambolona alta un metro e novanta che proprio non voleva saperne di indossare un costume di Folco, realizzato per una donna ben più piccola di lei: “La guerra con i manichini è sempre in perdita”, sentenziò prima di andarsene, e naturalmente non intendeva quel corpo inanimato.

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