La copertina di Challenger, di Guillem Lòpez

Basta un romanzo per ricordare che un mondo peggiore è sempre possibile

Vanni Santoni

Challenger di Guillem López, tra accostamenti arditi e frontiere temerarie

Si parla molto, quando si parla di narrativa contemporanea, di ibridazioni e sconfinamenti, ovvero di influenze incrociate tra generi e medium, e non c’è dubbio che tanto gli autori “alti” più interessanti emersi in Europa – si pensi alle visioni del romeno Mircea Căartăarescu, al “post-esotismo” del francese Antoine Volodine o all’intertestualità onirica del bulgaro Georgi Gospodinov – quanto quelli ormai pienamente affermatisi nel mainstream americano, come Colson Whitehead o Jonathan Lethem, solo per citarne due con libri in uscita o appena usciti da noi (I ragazzi della Nickel, Mondadori; Il detective selvaggio, La nave di Teseo) abbiano ormai definitivamente divelto le barriere tra i generi, ricordandoci, nel farlo, che sono barriere per lo più editoriali, dato che gli autori, e si può andare anche molto indietro nel tempo – fino a Omero, più o meno – hanno sempre fatto come gli pareva, prima che si affermasse il moderno e assai curioso pregiudizio secondo cui la narrativa realistica avesse un grado di nobiltà (o di letterarietà) in più. Ma così come la “literary fiction” attinge dai generi, là, nel territorio certo più aspro, e altrettanto certamente ignorato dalle giurie dei premi, dei cosiddetti “autori di genere puri”, c’è chi continua a portare avanti la frontiera delle possibilità del mash-up. Tra i campioni di quest’arte si annovera lo spagnolo Guillem López, portato in Italia con Challenger, suo terzo romanzo, da quella Eris edizioni che si era già distinta per l’aver reso disponibili al pubblico del nostro paese i fumetti-capolavoro del canadese Jesse Jacobs.

 

In Challenger, López faceva vorticare il realismo psicologico, l’orrore lovecraftiano e la fantascienza pulp in un unico, riuscitissimo romanzo a mosaico; oggi, sempre per i tipi di Eris, arriva con un romanzo più breve e compatto ma che, di nuovo, per essere definito richiede accostamenti dei più arditi: Kafka e Rosso Malpelo di Verga incontrano i nani di Moria che incontrano Minecraft? Qualcosa del genere, sebbene si sentano anche gli echi di Dickens e di Borges – eminentemente della Biblioteca di Babele. Ci troviamo in un mondo-miniera interamente sotterraneo, un abisso di tunnel e scavi illuminato dalle solo lanterne: l’uomo ha cominciato a scavare molto tempo fa, così tanto che ormai si è persa la memoria del “mondo di sopra”, così come quella delle ragioni per cui si è cominciato a scendere. Si sa solo che c’è il “pozzo”, e che tocca scavare – anche aiutati da innesti meccanici qualora il corpo biologico non ce la facesse più. Ventuno è il numero che identifica il protagonista – il suo nome, dunque –, un adolescente (lo si può presumere, giacché nell’oscurità del “pozzo” ogni cosa sfuma, e del resto, come si può immaginare, in un posto del genere il lavoro minorile è prassi), e il suo destino è quello di tutti: scavare nell’oscurità finché il corpo regge; ritrovarsi munito di brutali impianti biomeccanici per scavare ancora un po’; infine morire. Salvo permettersi di immaginare una vita differente; salvo chiedersi se non si possa fuggire, o almeno smettere di scavare… La lingua che López sceglie per questo breve e nerissimo romanzo è semplice e rozza, adatta agli abitanti di simili, ignobili profondità, e quindi risulta certamente diversa da quella misurata, e a volte anche forbita, di Challenger (la traduttrice, Francesca Bianchi, è la medesima, ed è abile a rendere tale differenza), ma non per questo lo si può considerare opera minore: con questo concentrato di fango, buio e disperazione, ma anche di humour feroce, López mette la freccia sui tanti, e spesso improvvisati, “distopisti” spuntati in giro e dimostra che, sì, un mondo peggiore è sempre possibile.

Di più su questi argomenti: