Torre di Babele, Pieter Bruegel il Vecchio, 1563

Tante lingue niente razze

Maurizio Crippa

Farsi aiutare dalla linguistica, in tempi di divisioni, a capire ciò che rende uguali. Il libro di Andrea Moro

Con la tuba in testa, il vecchio esploratore e naturalista Alexander Von Humboldt scende dalla carrozza all’alba di un paesino deserto nella Germania dell’Ottocento, immaginando di incontrarvi un “collega” di studi e di terre lontane, questo Jakob Simon con cui da tempo corrispondeva per lettera. E che invece non è un suo pari, è un ragazzo sognatore e invecchiato, che non ha mai potuto emigrare in Brasile, come hanno fatto tanti della sua terra, ma ha studiato e comparato le lingue dei popoli indigeni di quell’altra patria sognata e lontana, penetrandone i segreti e i pensieri. Chissà, forse uguali ai suoi, nel profondo e oltre ai suoni. Il von Humboldt che appare come una visione sul finire di L’altra Heimat - Cronaca di un sogno di Edgar Reitz (ultima parte, 2013, del suo monumentale film-fiume sulla storia della Germania) aveva un fratello, Wilhelm, meno viaggiatore ma che ha lasciato un segno nella storia dello studio delle lingue. E quando si parla di Heimat, di terra e patria, anche oggi la lingua prima o poi gioca un ruolo importante. Per dividere chi sa elaborare un pensiero superiore da chi non sa nominare con la stessa precisione le cose. Wilhelm von Humboldt, in quel crogiolo in cui si andavano formando le teorie linguistiche e più tardi anche le teorie della diversità e superiorità di una razza sull’altra che fu la Germania dell’Ottocento, sosteneva che si dovesse prima farne una catalogazione e una comparazione. Ma esprimeva “comunque una sua idea per cui le lingue flessive (come la sua o le nostre europee, ndr) sarebbero superiori alle altre”. Da quando gli uomini riflettono sul loro linguaggio, cioè da sempre, una delle idee più diffuse è che ogni lingua, ogni modo di formare parole e farne definizioni di concetti e azioni esprima un modo di vedere il mondo, di percepirlo. Da qui a stabilire che tanto più una lingua è ricca di parole, verbi, flessioni, capacità di astrazione tanto più è espressione di una civiltà superiore, il passo è ancora lungo. Ma a volte è stato breve. Nell’Ottocento in molti paesi d’Europa, non soltanto in Germania, il passo è stato molto breve. La superiorità di un certo tipo di lingue e di sintassi divenne uno degli aspetti che dimostravano la superiorità di una razza o una civiltà. Non tutti i linguisti la pensavano così, ovviamente, anzi basterebbe De Sausure a dimostrare che la linguistica più aggiornata la pensava al contrario. Ma avvenne.

 

Oggi, per motivi di carattere sociale o politico, qua e là si sta regredendo a un’idea di diversità e superiorità, dunque di valore e di divisione, che nulla c’entra con la linguistica che nel frattempo è avanzata per la sua strada. Però ci sono le lingue e le culture degli “altri”, percepite come inconoscibili e portatrici di idee inconciliabili. Ci sono politici, per stare in Italia, che fanno dell’identità nazionale, dunque anche della lingua, il contenuto dei loro comizi (“Non me lo toglierete!”). Persino nel separatismo catalano l’alterità linguistica esercita una potenza simbolica enorme. E’ il momento di ripetere con chiarezza che la lingua è invece ciò che accomuna tutti. Così la pensa il linguista Andrea Moro, che lo ha fatto con una magnifica carrellata in cui spiega come sono state studiate le lingue, letteralmente con “sei lezioni sul razzismo”, come da sottotitolo di un libro da poco pubblicato, La razza e la lingua (La Nave di Teseo), molto attuale e illuminante anche senza essere specialisti della materia.

 

Andrea Moro, che da molto si dedica a studi di neurolinguistica e al rapporto tra cervello e lingue umane, poggia le sue argomentazioni sulle spalle di un gigante, gli studi e le teorie di Noam Chomsky di cui è allievo e da lungo tempo collaboratore sugli sviluppi più recenti della ricerca linguistica.  “Oggi, a differenza dell’Ottocento, abbiamo prove dirette” di quanto l’ipotesi che “esistano lingue migliori delle altre sia falsa prima che pericolosa e dannosa”, scrive Moro. Eppure è un’idea che è “riattecchita”, almeno “nel senso comune”. Moro spiega, con l’incedere cristallino dello scienziato, che la lingua è una struttura profonda, anzi un vero tessuto del cervello, comune a tutti gli uomini: la capacità di elaborare il linguaggio e designare il mondo non muta in base ai modi in cui lo facciamo dalla nascita, in modo naturale. Il legame tra linguistica e biologia, spiega Moro, ha chiarito che le lingue umane sono in realtà considerabili come un’unica lingua, alla cui base esiste un’unica struttura biologica. Perché allora parliamo lingue diverse? Nessuno lo sa, Moro nemmeno, ma azzarda alla fine del suo percorso una ipotesi, che “forse Babele è un dono”. Nel senso di uno strumento che nel corso della storia ha impedito ai gruppi umani, così come è avvenuto per altre specie viventi, di diventare troppo grandi, fino a condizioni di non sopravvivenza. Dunque anche preservare le diversità linguistiche è importante, perché nessuna è superiore (e “pensare che la struttura della società rifletta la struttura della lingua è un’ipotesi morta ma pericolosa”, l’equivalente “dell’eugenetica in ambito linguistico”, dice). Tanto più oggi che alla logica intrinseca della globalizzazione “evidentemente farebbe comodo una nuova koinè, capace di veicolare modelli culturali”. E oggi, si può aggiungere deviando un poco dal percorso, che lo studio e l’utilizzo di lingue artificiali, le lingue degli algoritmi e dei computer che guidano l’intelligenza artificiale, sembra a volte diventare l’unico interesse reale anche per gli studi linguistici. Ma al di là dello specialismo, il nostro rapporto con queste neo lingue, per chiamarle così, è il problema più interessante e a volte grave, che abbiamo di fronte.

 

Alla base del lavoro e delle convinzioni di Andrea Moro ci sono i risultati della scienza, messi a fondamento di quello che potremmo chiamare (lui ovviamente se ne guarda bene, né in questo libro né altrove nei suoi scritti abbandona mai la serietà dell’ambito scientifico) un ottimismo umanista su di noi, sugli umani. Basterebbe una delle citazioni del suo maestro e amico Chomsky, all’epoca dei suoi primi studi: “Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano grammatiche praticamente comparabili di grande complessità con una notevole rapidità suggerisce che tutti gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale per questa attività”. O per rifarci all’eterno Aristotele, anche in tempi di macchine pensanti imbattibile nel trovare i nessi tra le parole e le cose, soltanto gli uomini sono in grado di disporre “una sequenza di parole di cui si può dire se esprime il vero o il falso”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"