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La Woodstock rurale di Arminio

Maurizio Baruffaldi

Il poeta e paesologo parla di La luna e i calanchi, il festival che organizza ad Aliano: “Tutta l'emozione si concentra di notte, dalle ventidue all'alba. C'è poesia e impegno civile”

Le sue raccolte di poesie vendono migliaia di copie. E va in tour come una popstar, trecento serate all'anno. “Reading in cui parlo della morte, di altre cose terribilmente serie, eppure diventa sempre una festa”. Ma Franco Arminio è anche paesologo. Una disciplina da lui stesso inventata, e alla quale appartiene come unico esemplare. Il nome è scientifico, ma “la paesologia è volatile, un'attività percettiva”.

Un'attività alla quale ha dedicato una festa, dal titolo La luna e i calanchi, dove fonde la sua anima migrante con quella cerimoniale. Si svolge fino al 25 agosto ad Aliano, in provincia di Matera, minuscolo paesino aggrappato all'appennino lucano, dove lo scrittore Carlo Levi fu esiliato e poi seppellito. Il festival vuole dimostrare e riconoscere la forza antropologica, necessaria, dei luoghi. Un cosa popolare e visionaria. Intenzione simile a quella della sua poesia.

 

Quando lo contatto Franco è in treno: la sera sarà ospite di un festival in Trentino, centrato sull'infinito e sulla montagna. In qualche modo varianti di luna e calanchi. “Ho sempre fatto azioni collettive. E quando sono stato ad Aliano, posto inoperoso, paesaggio lunare dove non si può fare agricoltura, un luogo che è un altrove, nei confini nazionali, ho pensato subito fosse adatto a metterci un poeta, un musicista, e migliaia di persone con fame di partecipazione, calore, amicizia”. La fame di tutti, atavica e invincibile.

“Infatti è qualcosa che somiglia a un rito religioso, dove io sono il sacerdote che conduce i fedeli di passaggio. E tutta l'emozione si concentra di notte, dalle ventidue all'alba: concerti, letture, narrazioni. Il giorno c’è la parte più politica, chiamiamola così. Si parla, ci si confronta, sullo spopolamento inesorabile dei paesi di tanto sud, o sul bisogno di maestri, e di filosofia. C'è poesia e impegno civile”.

 

Antonella Ruggiero si è esibita questa mattina all'alba. Non immagino una preghiera più grande. Quanta gente, dove e quando si dorme? “Parliamo di due/tremila persone al giorno. Molti dormono in campeggio, qualcuno in macchina, negli alberghi vicini. C'è chi viene la mattina e se ne va la sera. Chi non dorme proprio, perché non ce n'è il tempo; io poi, non prendo sonno profondo per cinque giorni. È il festival del dormiveglia, e stando vicini, stando anche uno con la testa sulle gambe dell'altro si produce quella che chiamo intimità provvisoria. La stanchezza poi, allenta i freni inibitori. La notte, tutto congiura. Se vieni fidanzato, rischi di rompere. Se non lo sei, ti succede. C'è un po' di leggenda, che non fa mai male, come una piccola Woodstock rurale, dove la droga non è benvenuta, ma si mesce vino, e c'è grande attenzione al cibo. Nella mensa cucinano fiere casalinghe. Non è un festival ascetico, ma molto sensuale”.

 

Un posto dove si cucca, quindi: con tutto il rispetto delle grandi motivazioni po/etiche. Un'affermazione che Franco lascia cadere senza ribattere: non può certo sponsorizzarla. Leggo dal programma che ci sono molti nomi che fanno audience. “Ad Aliano si viene per simpatia, per empatia, anche se cerchiamo di dare qualche contributo. C'è gente di grande valore, ma anche gente così. Che poi però diventa anche spettatore di cose altrui. Arriva anche il non invitato, che si crea la sua isola di pubblico autonoma, in un angolo. E una cosa che incoraggio, mi piace”.

 

Lo spazio è quello che è: non si rischia così di congestionare? “No. Le cose finiscono per incastrarsi. Non è un festival della baldoria, c'è una guida. La poetica la faccio io e i vari artisti stanno dentro questo flusso. Si tratta di dare il ritmo”.

Stasera ci sarà anche Brunori Sas. La sua stupenda Canzoni contro la paura potrebbe benissimo essere un sottotitolo del festival.

“Siamo molto amici e quest'anno facciamo una cosa insieme anche ad Aliano. In una delle scorse edizioni venne anche Sgarbi, e subito riconobbe che questo Festival non c'entrava niente con la cultura: disse che è un festival del sacro. Aveva centrato subito l'intenzione”. Dov'è il sacro? “I luoghi sperduti procurano una forma di commozione. Una sorta di vigore. Una vibrazione. Dove l'uomo è troppo presente spesso ci sono noia e stanchezza. La modernità ha disincantato il mondo, l'uomo occidentale è scontento”. 

  

  

Io sono un cittadino che scruta gli sguardi delle persone, per deformazione professionale e animale. E spesso in effetti li trovo cupi. “Ecco. Quegli sguardi però cambiano quando accade qualcosa di tragico. Per esempio, dopo un tempesta di neve, e tre giorni chiusi in casa, appena liberate le persone si guardavano con affetto, partecipazione. O per atroce esempio, quando ti muore un figlio, si guardano con clemenza, dolcezza. Per il resto lo sguardo del quotidiano, quand'anche ti considera, è ammonitore. Serve la tragedia, che seppellisce qualunque spinta al consumo, per ritrovarsi. Perché c'è una fede disoccupata. Perché il sacro non è utile alla produzione. Senza la passione metafisica, l'uomo si ammala. L'avevano fatto i partiti socialisti e hanno fallito. Oggi ci alziamo la mattina e al posto del cielo guardiamo il telefonino”. Per fare il punto del nostro ego. Però anche tu sei molto social. “Vero. Ma è un veicolo, e lo sfrutto. Posto anche più volte al giorno. Scrivo il pensiero che mi sale la mattina, poi magari sono versi che finiscono su un libro. Uso la bacheca social come stimolo, perché non c'è un committente che mi chiede di scrivere. Invece così, sapendo che c'è un pubblico, mi costringo a produrre”. E alcuni critici ti accusano di vendere. “Ma io non ho mai cavalcato alcun umore. La maggior parte delle poesie di Cedi la strada agli alberi (oltre 17.000 copie) sono state scritte negli anni '80 e '90, poi hanno viaggiato su Instagram. Sono i miei contenuti, la mia materia che si adatta a quella forma. Sto sui social, ma vivo in un paese vero, in lungo e in largo per l'Italia, me li vado a prendere uno a uno, i lettori”.

 

Arminio è ostile alla modernità dell'urbanizzazione, all'automobile. “Sento proprio un’antipatia per le fabbriche, per le autostrade, per tutto il paesaggio disseminato di carrozzerie, gommisti, autorivendite, pompe di benzina, officine meccaniche”. Molto meno ostile alla voragine social, però. “È un mondo in continua evoluzione. Scrivevo un blog: è deperito, è scomparso naturalmente. Poi ho scritto su Instagram. Fra un anno ci sarà un'altra cosa ancora. Appoggi le tue parole su questo tapis roulant. Non devi portare il broncio nei social. Ne devi riconoscere la potenza e il pericolo. Adesso dettano il ritmo, ti imbarcano anche se non ti presenti al porto. Puoi anche non starci, ma non frega niente a nessuno. Non disinneschi nulla. Il mondo va comunque”.

 

La poesia trova quindi il suo complice nella rapidità social. “È un mondo che posa più sugli affetti che sulla ragione. La modernità nasce con Cartesio e il suo 'penso quindi sono': tutto il primato alla ragione. Ma il social è un veicolo che non può portare la saggistica, la sociologia, gli studi profondi: solo slanci, canti, frammenti. Prolifera sulla suggestione. Fa scomparire la divisione dei ruoli e delle competenze. I social portano indietro: la chiacchiera, il pettegolezzo, sono una cosa contadina. Sui social la scienza non conta un cazzo. Tutti ascoltatori e narratori, allo stesso tempo. Come un'osteria, una piazza. Ma non sappiamo dove questa onda andrà parare. Nessuno sa che piega prenderà”.

 

Che piega ha preso, in questo imminente ottavo anno del festival, il rapporto con gli abitanti del paese? “Non è un rapporto semplice, c’è sempre il rischio di essere visti come colonizzatori. Chi vive nei paesi è come se finisse per affezionarsi ai guasti, alle inerzie. Chi smuove le acque crea sentimenti contraddittori, gratitudine e diffidenza. La paesologia non idealizza la cultura paesana. Bisogna che il paese non sia fatto solo dai paesani. Dovrebbero abitarli anche persone con lo sguardo ventilato, aperto, affettuoso; dovrebbero essere loro a godere dell'aria buona, lo spazio, il cibo genuino. Ci vuole lo sguardo esterno, l'essere intimi ed estranei. Invece gli scoraggiatori militanti, di fatto, sequestrano il paese. Lo rendono prigioniero della sfiducia. Sono nemici di ogni innovazione. Diventano animosi, si ravvivano solo quando devono combattere la guarigione. Si affezionano alla malattia”. Sembra un quadro nazionale, se non universale. “Non ho nessuna nostalgia del mondo arcaico. Dico solo che l'Italia ha rotto velocemente con la dimensione contadina, ma non è diventata una nazione moderna. A livello antropologico siamo bloccati. Non possiamo tornare indietro ma non riusciamo ad andare avanti. Io guardo il piccolo luogo, ma la questione è il mondo. Mi interessa il mondo. Non il paese fine a se stesso”.

 

Per quello c'è la paesanologia, dice quasi tra sé. La disciplina di chi studia solo il passato del suo paese. “A me interessa invece il presente. Dagli anni '70 in poi quasi nessuno ha raccontato i luoghi minori: non ci sono film o libri. La televisione, la grande stampa, ma anche i sociologi, rivolgono l'attenzione solo quando c'è un terremoto, o qualche assassinio efferato”. Tanto per tornare al concetto dello sguardo clemente, di fronte alla tragedia. La paesologia, invece? “Si biforca: da una parte c'è la contemplazione, il far compagnia ai luoghi, come andare a trovare un vecchio zio; è più malinconica. Dall'altra c'è quella più militante. Il fare per. È il binario al quale si affida il festival. Il paese non come luogo da assistere, ma da vivere”. Alla base di quell'umanesimo delle montagne che richiami. “Siamo costretti a salire. La montagna ci guadagna da qualunque lato la si guardi. Ad esempio il clima: sono luoghi più vivibili; aldilà di quello che faranno gli uomini per il riscaldamento globale, il futuro lavora a favore della vita in montagna. Lo spazio: le pianure sono poche, tutte urbanizzate, non si può fare più nulla, e in questi paesi in montagna sono state costruite tantissime case. Miliardi di euro inutilizzati. Bisogna creare dei meccanismi sociali, là dove ci sono case, grandi e dai prezzi modestissimi. Bisogna spostare le azioni necessarie”.

 

Arminio si ferma. Dice che potrebbe bastare, teme di ripetersi. Io lo rassicuro: il montaggio saprà rimediare. Voglio ancora sapere cosa pensa di quel Sud che cerca di stanare. “Il Sud si trova a disagio nella bellezza; il Sud abituato alle cose arrangiate e anche un poco corrotte; il Sud che vuole trascinare tutto e tutti verso il basso. La festa di Aliano ha qualcosa di miracoloso, ma si fa fatica a riconoscere i miracoli in una terra che si è sempre pensata sventurata. Ho come la sensazione che tanta gente sarebbe contenta se la festa non si facesse più. Noi spendiamo quello che in molti spendono per una sola serata di un cantante famoso. Siamo un esempio intollerabile perché mette in luce le ombre degli altri”. L'esempio. Il futuro. I ragazzi sono abituati alla poesia obbligata dalla scuola, che ai più appare lingua sconosciuta, o da decifrare come certa enigmistica. Hanno però uguale bisogno di assoluto, di evocazione, tanto da scambiare per poesia tanta retorica giovanilista da blogger. O da rapper. Il cibo in scatola che placa la fame. Perché la tua funziona? “La mia poesia è semplicità, immediatezza, trasparenza. Come una stretta di mano. Tu hai bisogno di una stretta di mano, cerchi in quel modo di trasmetterti: dai un appiglio. A un naufrago non devi dire che il mare è freddo, ma dare calore. Parlo delle cose fondamentali, dei sentimenti, quelli che magari non puoi condividere al bar; nella stanza del poeta invece si stabilisce una sorta di dialogo. Di fratellanza. Di riconoscimento”.

 

Non riesco a trovare una cosa più semplice e immediata di: Siate dolci con i deboli, feroci con i potenti. Richiesta elementare che però oggi appare nobile, e persino guerriera. Nel tempo che gonfia il petto dei vili. “I miei sono inviti. Non lo fa la politica, non lo fa più la religione, io lo faccio da supplente. Ci sono rischi, certo, parole da Baci Perugina, ma sono rischi che corro serenamente. La mia poesia vuole ricucire. È un'arte di orientamento, che invita però a rischiare qualcosa ogni giorno”. Osare per non smarrirsi.

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